Il Calendario Liturgico sia ieri che oggi ci ha portati a contemplare il mistero della Croce vissuto da Gesù nella gloria e da sua Madre nel dolore; ma le parole della Liturgia di questa domenica di fine estate fanno un po' impressione, perché più che una Liturgia del Tempo Ordinario sembra una Liturgia del Tempo di Quaresima inoltrata!
Fa impressione, perché la ripresa delle attività dopo il periodo estivo dovrebbe essere piena di voglia di ripartire e invece il Vangelo di oggi ci parla di morte, e di morte in croce. Fa impressione, perché seguire Gesù dovrebbe voler dire percorrere una strada di luce con tanta voglia di vivere la vita e invece la Parola di Dio ci dice che per trovare la vera vita dobbiamo perderla. Fa impressione un Dio che invece di apparire forte e potente, si presenta debole e incapace, soggetto ai flagelli, agli insulti, agli sputi, alle percosse, e poi alla morte violenta.
In fondo è la Croce a farci impressione: ci fa impressione perché non la comprendiamo, spesso la rifiutiamo, la combattiamo, non la vogliamo tra i piedi: eppure, quando la contempliamo, ci affascina. Il potere che esercita su di noi questo Dio Crocifisso è terribile e affascinante, meraviglioso e tremendo, morente e risorto al tempo stesso.
È proprio la logica del cristianesimo, che ci affascina: quella logica per cui il nostro Dio è il più potente di tutti nonostante sia il più debole; quella logica per cui, se vuoi parlargli a quattr'occhi - come Pietro - dicendogli che non sei d'accordo con le sue scelte, prima devi metterti dietro di lui e seguirlo anche dove tu non vuoi, e solo dopo gli parlerai; quella logica per cui un attimo prima - come Pietro - fai la tua professione di fede e lo proclami Signore della Vita e della Storia, e un attimo dopo ti senti dire da lui che sei “satana”, ovvero l'avversario, colui che mette i bastoni tra le ruote alla storia della salvezza, proprio perché non ragioni con la logica di Dio.
Ma allora, qual è la logica di Dio? Con che logica pensa Dio, se davvero è l'Altissimo e l'Onnipotente, ma poi si lascia trasfigurare dal dolore e dalla morte come un uomo qualsiasi? Che logica è quella di una vita da amare e da salvaguardare come dono di Dio, se poi ti viene detto che per salvarla devi perderla? In questa logica, in questo “pensare secondo Dio” c'è qualcosa che non funziona, qualcosa che non corrisponde affatto con il “pensare secondo gli uomini”.
La logica umana non riesce a coincidere con la logica del Dio di Gesù Cristo, c'è poco da fare. Però è anche vero che le due logiche, i due modi di pensare, non sono nemmeno del tutto paralleli: ci sono delle cose in comune tra loro, cose che vanno d'accordo, che si “incrociano”, che formano appunto una croce e questi due modi di pensare - il pensare di Dio e il pensare degli uomini - si incrociano su tutto ciò che riguarda l'umano: la vita, i sentimenti, le sensazioni, le sofferenze, il corpo, le malattie, le gioie, i dolori, le arrabbiature, i limiti, la morte.
Su tutto ciò che è profondamente umano, il pensare del Dio di Gesù Cristo e il pensare dell'uomo si incrociano, formano una croce, che non è più un patibolo, ma diventa segno di salvezza e di forza, perché l'intreccio è talmente profondo che nessuna realtà di questo mondo, né la morte né la vita, come ci dice Paolo, ci potrà mai separare dall'amore di Cristo.
Ma occorre anche essere realisti, e ammettere che ci sono logiche di Dio e logiche degli uomini che non possono coincidere, ed è proprio questo il motivo per cui il Maestro ci chiede - come a Pietro - di rimetterci dietro di lui e di imparare innanzitutto a seguirlo prendendoci ogni giorno sulle spalle la nostra croce. Quali sono queste logiche degli uomini che non sono secondo il pensiero di Dio? Sono le logiche del potere, della pigrizia e dell'immobilismo, quelle che danno tutto per scontato, mentre Dio è l'Amore che muove il mondo, lo attrae a sé perché ne è perdutamente innamorato e ci chiede di fare altrettanto.
A Dio il primo posto, davanti, con la croce sulle spalle, trascinata a fatica come a tracciare in terra un cammino da seguire; e noi dietro di lui, con la nostra piccola croce quotidiana, ogni giorno diversa, ogni giorno più grande, ogni giorno più incomprensibile, ma, con lui davanti, ogni giorno incredibilmente più leggera.
La pagina del Vangelo di questa domenica descrive un gesto di Gesù che, a prima vista, risulta alquanto strano: tocca con le dita le orecchie di un sordomuto e gli mette un po’ della propria saliva sulla lingua, restituendogli l’udito e la parola. Mirabile come miracolo fisico, la guarigione del sordomuto è raccontata da Marco come segno della necessità di aprire le orecchie e di sciogliere la lingua dello spirito nel rapporto con Dio e con il prossimo. Il gesto di Gesù si rivela carico di applicazioni a livello spirituale. Come del resto tutti i miracoli che egli compie: mai fini a se stessi, ma segni e anticipi della guarigione totale dell’uomo.
Il miracolo descritto avviene nel territorio della Decapoli, che comprende dieci città libere ai margini della Palestina, con popolazioni e fedi differenti. Gesù conduce il sordomuto in disparte, lontano dalla folla, perché sempre si chiudono le orecchie e si blocca la lingua di fronte ai valori dello Spirito, quando si è immersi nel frastuono, nella mentalità e nelle abitudini di un ambiente pagano. Si rende necessario ritirarsi in disparte, riservandosi momenti di raccoglimento e di preghiera, per tornare a udire la voce di Dio e avere il coraggio di professare la fede in Lui.
Gesù porta il sordomuto tra altre persone che pregano per lui e compie il miracolo nella maniera più semplice: con il tocco delle mani, l’uso della saliva e l’imperativo «apriti! (effatà)», pronunciato con un sospiro di partecipazione. L’imposizione finale di non parlare della guarigione fa parte del cosiddetto “segreto messianico”, presente soprattutto in Marco.
Un segreto che viene disatteso. La folla, testimone dell’accaduto, non riesce a trattenere lo stupore e ripete unanime: «Ha fatto bene ogni cosa».
Il legame stabilito dalla liturgia domenicale con il testo del profeta Isaia aiuta a comprenderne la ragione. Con Gesù è giunto il tempo in cui Dio dice al suo popolo: «Coraggio, non temete!». È il tempo in cui si stanno verificando i segni dell’avvento di un mondo nuovo, quando «si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora… griderà di gioia la lingua del muto». Lo stupore e la speranza suscitatrice di vita provocati dalla persona di Gesù attraversano i secoli e mantengono viva la speranza nella Chiesa.
La parola effatà, inoltre, è entrata nella liturgia battesimale: al termine del rito, infatti, il sacerdote tocca le labbra e gli orecchi del bambino e prega che egli possa presto ascoltare e annunziare la Parola del Signore trasmessa dalla Chiesa.
La stessa Parola che il Cristo rivolse al sordomuto, affinché si riattivassero i suoi sensi e incominciassero a funzionare normalmente, la Chiesa la rivolge all’uomo interiore, perché si apra ai divini misteri mediante la luce della fede, dell’amore, della speranza; perché, attraverso il Battesimo, viva sempre più intensamente la vita divina nella propria anima. La grazia battesimale è da accogliere sempre e di nuovo, poiché sempre e continuamente deve svilupparsi e crescere in noi, in modo che l’esistenza cristiana diventi una graduale, costante collaborazione con quel misterioso inizio di vita divina.
La Parola di Gesù che, in sintonia con il Padre, ridà la vita: «Apriti!», possa aiutare tutti noi, sordi e muti, ad ascoltare, mettere in pratica, testimoniare, divulgare la verità, a farla conoscere a chi la cerca inconsapevolmente nelle cose vane del mondo.
Potremmo iniziare la nostra riflessione di questa domenica con una domanda: nella vita di fede, siamo tradizionalisti o progressisti? Amiamo le cose antiche legate alla tradizione oppure siamo più portati alla modernità e a cercare nuovi modi di vivere la fede? Non è una domanda priva di attualità: mai come in questo tempo, perlomeno da dopo il Concilio Vaticano II, nella Chiesa si sente questa duplice spinta: da una parte, c'è l'apertura a modelli nuovi: maggiore dialogo con altre religioni, altri modelli sociali e culturali; dall'altra parte c'è un forte ritorno al tradizionalismo, anche attraverso la rivalutazione di forme liturgiche appartenenti al passato. A volte, ci si chiede cosa sia più giusto fare.
Se si è alternativi nel vivere la fede, si è visti male da una certa parte della Chiesa proprio perché alternativi e quindi potenzialmente capaci di cadere in forme dottrinalmente scorrette; se si è tradizionali si è accusati di non essere al passo con i tempi e quindi lontani dall'uomo contemporaneo, testimoni antiquati di una fede che non dice più nulla alla gente. E allora, cos'è giusto fare? Come ci si deve comportare? Oppure è bene stare a metà, come la saggezza latina insegna “in medio stat virtus” - “la virtù sta nel mezzo”, salvando così “capra e cavoli”?
“Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi?”. Anche a Gesù è stata fatta questa domanda, quando i suoi discepoli si permettevano atteggiamenti “diversi” da quelli che la Legge di Mosè aveva loro insegnato e la reazione di Gesù non è certo delle più morbide: attacca i farisei che cercavano di rimanere fedeli alle tradizioni definendoli “ipocriti”, ovvero legati solo esteriormente alle tradizioni, ma in realtà lontani dallo spirito delle cose che le tradizioni volevano insegnare.
Perché Gesù se la prende tanto? Il problema non sta nello scegliere un modello rispetto a un altro, e la chiave delle affermazioni di Gesù sta nella citazione che egli stesso fa, nel Vangelo di oggi, a proposito di quanto disse il profeta Isaia al popolo d'Israele: “Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me”. Cosa significa questo? Gesù vuole è che il rapporto con Dio non debba essere valutato sulla scorta di atteggiamenti più o meno rispondenti a leggi o norme, ma sull'intensità del nostro legame con Lui, ovvero sul “cuore” che ci mettiamo quando facciamo qualcosa.
In fondo, servire Dio e definirsi cristiani non è difficile: basta seguire le norme che la Chiesa ci indica, conoscere e applicare il catechismo e i comandamenti, assolvere i precetti e con questo siamo a posto. Questo è sufficiente per dirci appartenenti alla religione cristiana, ma per dire che amiamo Dio, non basta. Tra l'appartenere a una religione ed essere uomini e donne profondamente innamorati di Dio, c'è una bella differenza, perché onorare Dio con le labbra non significa automaticamente amarlo con il cuore, soprattutto quando “onorare Dio” con atteggiamenti giusti e irreprensibili ci porta a giudicare gli altri, arrivando addirittura a pensare male di loro perché non professano la loro dottrina così come lo facciamo noi.
Si può essere uomini e donne di Dio anche se diversi e lontani dagli schemi classici, così come può capitare di non amare Dio pur osservando tutte le tradizioni che la Chiesa ci ha insegnato. Se il nostro cuore non è tutto rivolto a Dio, non sarà certo l'osservanza o meno dei precetti a riportarlo verso di Lui.
Perché non è ciò che assumiamo dentro di noi a farci giusti è ciò che “buttiamo fuori” nei confronti della vita che dice quanto il nostro cuore sia pieno di amore oppure di tutte quelle sporcizie che il Vangelo di oggi ci sbatte drasticamente in faccia: impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza, e chi più ne ha più ne metta.
Sono queste tutte cose che buttiamo fuori, addosso agli altri, quando il nostro cuore non è tutto rivolto a Dio e anche se a Messa ci andiamo tutte le domeniche e magari tutti i giorni, convinti che basti questo per dirci cristiani.
Il discorso del Vangelo di Giovanni sul Pane di Vita ci accompagna anche in questa domenica. Attraverso l'immagine del banchetto nella Sacre Scritture, non si descrive solo una funzione vitale come quella del mangiare e del bere: il banchetto biblico è sempre anche un “memoriale”, ovvero un rito durante il quale si fa anche memoria di qualcosa che è avvenuto nel passato, i cui benefici continuano ad avere efficacia nella vita presente senza ovviamente dimenticare il valore simbolico della condivisione del cibo, che altro non è se non entrare in comunione e in amicizia con chi mangia insieme con noi. Da buon ebreo, Gesù vive con intensità la pratica del banchetto, e non solo nel banchetto dell'Ultima Cena, dove ci consegna la sua carne e il suo sangue nei segni del pane e del vino come “memoriale” della sua Morte e Resurrezione. Molti, infatti, sono i messaggi e i gesti significativi della sua missione avvenuti nel contesto di un banchetto.
È a un banchetto matrimoniale a Cana di Galilea che Gesù, trasformando l'acqua in vino, dà inizio ai segni miracolosi che contraddistingueranno la sua missione; è a un banchetto in casa di Levi il pubblicano, da poco chiamato al suo servizio, che rivela ai benpensanti d'Israele di essere venuto nel mondo a chiamare non i giusti, ma i peccatori; ed è sempre nel contesto di un banchetto in casa di un fariseo che Gesù, ricevuto un gesto d'affetto da una donna ritenuta “di pessima reputazione”, fa comprendere al puritano padrone di casa che solo chi ama di più è degno di sperimentare di più l'amore e il perdono di Dio; è a un banchetto in casa di un uomo di Betania guarito dalla lebbra che Gesù riceve un'unzione che è preludio della sua morte; e anche dopo la sua resurrezione, Gesù si presenta vivo ai suoi condividendo con loro un po' di pane sulla strada di Emmaus e un po' di pesce arrostito in riva al lago di Galilea. Per non parlare di quella famosa parabola nella quale paragona il Regno dei Cieli a un banchetto pensato inizialmente per i buoni e i giusti, i quali però rifiutano l'invito venendone definitivamente esclusi, a vantaggio dei poveri, degli emarginati e degli ultimi.
Tutto questo urta la sensibilità delle autorità religiose del suo tempo, che non possono accettare che un uomo di Dio condivida il banchetto con i peccatori, gli emarginati e gli esclusi della società: se banchettare con una persona significa sentirsi in amicizia e in comunione con lei, è chiaro che per i farisei puritani un Dio che entra in comunione con i peccatori è un Dio ridicolo, banale, addirittura blasfemo. Ma è proprio la condivisione della vita di Cristo con gli ultimi che spinge noi a comprendere che il Banchetto Eucaristico è il banchetto che ci fa “una sola cosa” con tutti gli esclusi e gli emarginati della società, così come lui ha fatto. Se quel Banchetto Eucaristico a cui partecipiamo con assiduità ogni domenica, o magari addirittura quotidianamente, non è capace poi di sfociare in gesti concreti di solidarietà con chi soffre, con chi è escluso, con chi è emarginato e con chi fatica ad avere un comportamento ineccepibile, risulta perfettamente inutile partecipare all'Eucaristia. La nostra partecipazione sarebbe puramente formale, rituale, incapace di dire qualcosa alla nostra vita, di creare condivisione, e quindi sarebbe profondamente falsa, proprio come quella dei benpensanti contemporanei di Gesù.
La continuità fra il Banchetto Eucaristico a cui partecipiamo e l'attenzione ai nostri fratelli più emarginati e bisognosi è fondamentale per acquistare la Sapienza divina; quella sapienza che, in Gesù, coincide con il comandamento della carità, che a parole diciamo di conoscere molto bene, ma che nella vita di ogni giorno rischia di rimanere un mucchio di belle parole gettate al vento. Va benissimo, allora, partecipare assiduamente al Banchetto Eucaristico: purché questo sfoci poi, come quello di Cristo, in gesti di carità concreta, di accoglienza, di condivisione con i più poveri, emarginati e con i feriti dalla vita.
Nel brano evangelico odierno ascoltiamo Gesù che ci dice: «Io sono il pane disceso dal cielo». A questa affermazione i Giudei mormorano e rispondono con stupore: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?».
Nella Bibbia la mormorazione è sinonimo di rifiuto di credere, è dichiarazione di ostilità, è chiusura davanti ad una proposta di Dio. Noi sappiamo che Dio si offre, ma non costringe; propone, ma non impone; bussa alla porta, ma non la sfonda.
La fede è dono di Dio, ma è anche atto di libertà. Tutti sono chiamati alla fede, ma non tutti rispondono in modo coerente. Arriva alla fede chi fa la volontà di Dio. Infatti Gesù dice: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato [...] Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me».
Si riesce a credere in Gesù soltanto se si vive una vita onesta, leale e umile nei confronti di Dio e del prossimo. Se si fa la sua volontà ogni giorno. Infatti, come il seme ha bisogno della terra per germogliare e dare frutti, così la fede ha bisogno di un cuore disponibile e orientato ad accogliere Dio nella propria vita. La fede è risposta generosa a Dio. Ecco perché Gesù risponde ai suoi mormoratori dicendo: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Ciò significa che chi mangia di lui non avrà più fame, e chi crede in lui non avrà più sete.
Gesù è colui di cui noi abbiamo bisogno più del pane: è lui il vero dono di Dio, capace di colmare le nostre attese più profonde. Afferma di essere il Figlio di Dio, l'unico in grado di sfamare il nostro cuore e di saziarci oggi e per l'eternità. La manna che gli Ebrei hanno mangiato durante la loro fuga non li ha sottratti alla morte. Chi invece mangia il pane vivo, che è la sua carne, vivrà per sempre.
Anche noi, che siamo presenti alla celebrazione eucaristica, siamo in attesa di «mangiare» il corpo di Cristo. Nutriamoci di questo santissimo Corpo perché esso è un cibo che non perisce, ma dà la vita eterna.