Due settimane fa, il Vangelo di Matteo ci aveva regalato la parabola delle dieci ragazze pronte per le nozze, cinque delle quali, stolte, erano rimaste chiuse fuori perché non avevano portato con sé l'olio della carità. E a loro, la porta non fu più aperta nonostante l'insistenza della loro preghiera. Il giudizio dello sposo, in quel caso, fu inappellabile: “Non vi conosco”. Non riconosco i segni della presenza del mio Regno nel vostro cuore. Sì, perché alla fine quella festa di nozze altro non era che partecipare alla gioia del Regno di Dio. E una volta che ci troveremo alla presenza di Dio ci sarà posto per tutti, senza formalità o distinzioni? Sì, ci sarà posto per “tutti i popoli” dice il Vangelo di oggi, ma prima dell'inizio del banchetto di festa, ci sarà un processo molto particolare. Cosa mai ci chiederà in questo processo il Re, Signore e Giudice della storia? Di sicuro, se abbiamo fatto tutte le cose che lo riguardano in quanto Dio. Vorrà sapere se lo abbiamo pregato abbastanza; vorrà sapere quante volte siamo andati a Messa la domenica; vorrà sapere se abbiamo aiutato e voluto bene ai nostri sacerdoti, se abbiamo condiviso le scelte della Chiesa nelle sue attività, se abbiamo approfondito la nostra fede con letture spirituali e teologiche, se abbiamo sostenuto economicamente le nostre comunità.

            No, niente di tutto questo. Lui a noi chiederà altre cose, anzi no, nemmeno ce le chiederà perché questa è un'altra particolarità di questo giudizio quasi anomalo: che non c'è alcun pubblico ministero che interroga l'imputato. Anzi, sono gli imputati a interrogare il giudice, ognuno dal proprio punto di vista ma con la stessa domanda: “Ma quando mai, Signore?”. Quando mai, Signore, ti abbiamo visto nella necessità e ti abbiamo aiutato o ignorato? Quando mai tu eri come uno di noi, qui sulla terra? Tu non sei qui, tra la polvere delle nostre strade: tu sei nella creazione, tu sei nella bellezza che ci circonda, al massimo, se proprio sei qui, tu stai in una chiesa!

            E il Re-Giudice-Signore risponderà al nostro interrogatorio: “Hai visto quanta gente soffre la fame? Io sono lì. Hai visto quanta gente arde per la sete? Io sono lì. Hai visto quanti senza tetto a causa delle guerre e dei disastri naturali? Io sono lì. Hai visto quanti, per ripararsi, non solo non hanno una casa, ma neppure un vestito? Io sono lì. Hai visto quanta gente non può muoversi con le proprie gambe perché impedita dalla malattia o perché la porta di un carcere le sbarra la strada davanti? Io sono lì. Ed ogni volta che avrai aperto gli occhi e ti sarai accorto di queste persone, è di me che ti sarai accorto”.

            E noi che pensavamo che Dio ci avrebbe chiesto se lo abbiamo pregato abbastanza, quante volte siamo andati a Messa la domenica, se abbiamo aiutato e voluto bene ai nostri sacerdoti, se abbiamo appoggiato la Chiesa nelle sue attività, se abbiamo approfondito la nostra fede con letture spirituali e teologiche, se abbiamo sostenuto economicamente le nostre comunità! No, di questo non ci chiederà nulla, perché sa che sarebbe troppo semplice rispondere di sì. Ci chiederà se siamo stati capaci di aprire gli occhi e di guardare ai nostri fratelli più piccoli. Se li hai visti e hai fatto qualcosa per loro sei assolto e premiato. Se non li hai visti o, meglio, hai finto di non vederli, non c'è Messa, né preghiera, né offerta in chiesa che tengano: condannato in via definitiva.

            Grazie a questo Dio, il banchetto gioioso del Regno è zeppo di gente, soprattutto di “cristiani veri”, che magari non hanno mai neppure saputo di esserlo perché l'amore per gli ultimi non ha etichette né carte d'identità.

                                                                                                                        don Franco Bartolino

Tra le emozioni più ricorrenti, è - e non poteva essere diversamente - quella della paura. Si tratta di un'emozione molto avvertita per il fatto che viviamo in un'epoca nella quale tutti quanti viviamo un senso di precarietà, di incertezza verso il futuro che certamente ci dispone in un forte stato di timore e di agitazione e il cui disturbo più evidente e più diffuso è l'ansia.

            È vero che si tratta di un fenomeno in crescita nell'epoca contemporanea, ma l'ansia e la paura da sempre fanno parte della dimensione psicologica e spirituale dell'essere umano ed è proprio la mancanza di certezze che ci porta ad avere paura. Paura dell'ignoto, paura di ciò che può accadere ma di cui non sappiamo la natura, paura anche di qualcosa di concreto di fronte al quale non sappiamo come comportarci, scegliendo spesso di non scegliere e di lasciare che le cose vadano come devono andare.

            È quest'ultimo aspetto che, forse, albergava nel cuore di uno dei tre servi della parabola, che di fronte al padrone che vuole regolare i conti con lui riguardo al talento che gli aveva consegnato, rispose in maniera candida: “Ho avuto paura”. Ma, io mi chiedo: che male c'è, ad avere paura e a riconoscerlo? Come il padrone fa notare nel suo discorso finale che dietro la paura di quel servo non c'è una reazione naturale e istintiva di fronte a qualcosa che provocava in lui incertezza, bensì un ragionamento ben calcolato e ponderato.

            Paura di cosa? Paura di tutto. Paura del padrone, certo, ma anche paura di rischiare; paura di sé stesso e delle proprie capacità; paura di prendere posizione; paura della vita, in definitiva. Una paura di fronte alla quale è molto meglio scegliere di non scegliere e seppellirsi sotto terra. Sì, perché sotto terra non ha nascosto solamente il suo talento: ha nascosto sé stesso, si è seppellito perché si è riconosciuto per quello che era, un morto vivente. Uno che non era capace di vivere la vita e ha giustificato la sua incapacità dando colpa alla durezza del padrone.

            Che, in fondo, è lo stesso che facciamo noi quando rinunciamo a vivere in pienezza la nostra vita e facciamo questo incolpando Dio di essere troppo esigente, per cui preferiamo nasconderci dicendo “Dio, tu mi fai paura”. E la paura è l'esatto contrario di ciò che il Vangelo annuncia.

            Il Vangelo di Matteo che ci ha accompagnato in quest'anno liturgico ormai prossimo al termine, apre i propri discorsi diretti con le parole dell'angelo a Giuseppe: “Non temere” e conclude la vicenda storica di Gesù con le parole dell'angelo stesso alle donne di fronte alla tomba vuota: “Voi, non abbiate paura”. La paura di Dio come conseguenza di una nostra visione di Lui in quanto esigente, duro e forse anche pretenzioso nei nostri confronti, è l'esatto contrario della fede, che altro non è se non un senso di fiducia nei confronti di un Dio che non vuole essere temuto, ma amato.

            So perfettamente che non è facile scrollarsi di dosso secoli nei quali ci è stato insegnato ad aver paura del giudizio di Dio sulla storia e sulla nostra vita, paura che era superabile solo attraverso una totale e silenziosa sottomissione. Ma questo non è Vangelo, o meglio: il Vangelo non è questo. Il Vangelo è fiducia, è gioia, è intraprendenza, è voglia di vivere, è entusiasmo, e chi più ne ha, più ne metta! Vogliamo prendere parte alla gioia del Regno? Smettiamola di fare buche nel terreno per seppellire noi stessi e la nostra vita e diamoci da fare per mettere a frutto i talenti che il Signore ci ha dato secondo le nostre capacità, perché sa bene quanto valiamo: vediamo però di non deluderlo!

                                                                                           don Franco Bartolino

In queste due parole potremmo cogliere il cuore della Parola che la liturgia di questa domenica ci offre, parole che potrebbero segnare una luminosa traiettoria per la vita. Il vangelo di questa domenica risponde alla domanda fatta a Gesù dai discepoli nel capitolo precedente: “Dicci, quando accadranno queste cose, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo?».

 Gesù, da buon conoscitore del cuore umano, sa quanto sia facile lasciarsi suggestionare da illusorie promesse o false aspettative. “Dì a noi quando?” incalzano i discepoli. Gesù vuole smascherare la paura sapendo che questa è la madre di ogni inganno e lo fa prendendoci per mano in un cammino di verità e di consapevolezza.

 Ciò che ci attende non sarà una catastrofe apocalittica, ma ciò che di più bello il cuore di ogni uomo e donna possono desiderare: l’incontro nuziale. Vivere la comunione con il Signore che ci ha amati e che continuamente ci cerca.

 La parabola odierna delle dieci vergini evidenzia l’intensità e l’intimità che abitano il cuore umano.  Permettiamoci ancora uno sguardo al capitolo precedente perché ci suggerisce qualcosa di molto importante per la comprensione del vangelo odierno: la paura e l’ansia sul quando sarà la fine del mondo allontanano il cuore dell’uomo da ciò che in verità è il disegno di Dio, la Sua volontà di amore e di bene che in ogni nostro oggi si compie.

 Il discorso sulla fine del mondo viene ribaltato perché una sola cosa è importante: vivere il presente con vigilanza e responsabilità. E’ la vigilanza che allena il nostro cuore, la nostra volontà e  tutte le nostre scelte a vivere il quotidiano come tempo di grazia, non per correre affannosamente dietro a mille cose, ma per incontrare il Signore e vivere la Sua Parola.

 Questo riempie di senso e di felice orientamento la vita e ci offre la prospettiva esatta per leggere la parabola: le dieci vergini uscirono per l’incontro con lo sposo.  A pensarci bene tutta la nostra vita è un uscire: dal grembo della madre, dalla sicurezza del conosciuto e del sempre fatto per incontrare il nuovo. La luce della fede ci offre questa “roccia” a cui ancorare ogni nostro “oggi”; proprio attraverso i tornanti del nostro quotidiano, possiamo prendere il largo della fiducia e della speranza perché la vita di ciascuno non è preda del nulla e di un cieco destino, ma è un andare incontro a Colui che ha detto: “Io sono la luce del mondo”.

Illuminati da questa luce scopriremo i desideri che abitano il nostro cuore e per i quali viviamo ogni momento. Con il Signore, la nostra vita si accende di quella luce che il mondo non può darci, e si accende grazie a quell’olio che si accumula “per contatto” con Lui.

 Il vangelo odierno non vuole incoraggiare l’egoismo o il pensare solo a se stessi utilizzando la metafora delle ragazze sagge che non vogliono condividere il proprio olio con le altre, ma non si può pretendere dall’altro ciò che l’altro non può dare.

C’è un “proprium” che è quella risposta personale di ciascuno al dono di Dio, un dono che ognuno è libero di accogliere o rifiutare. Ricordiamo il vangelo dell’invito alle nozze di qualche domenica fa. Tra i molti invitati, uno è stato sorpreso senza l’abito nuziale, che in quel tempo veniva donato da chi organizzava la festa. Se qualcuno non aveva l’abito voleva dire che con libertà e personale decisione lo aveva rifiutato. La libertà di ogni uomo e donna è quello che ferma Dio. Ogni dono è grazia e responsabilità.

                                                                                                          sr Annafranca Romano

Fratelli, siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.
Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio.
Proprio per questo anche noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti. (1Ts 2,7b-9.13)

Questa premura, questo affetto umano e spirituale di cui parla Paolo ai Tessalonicesi è solo uno specchio lontano della premura con cui Dio da sempre ha avuto con l’opera uscita dalle sue mani, specialmente con ogni essere umano, di cui Israele è esempio di grazie e di elezione. Ma cosa accade dentro l’essere umano, e addirittura, dentro il cuore degli eletti, da non riuscire a corrispondere con gratitudine e amore alla scelta di Dio?

E poi, non possiamo più nascondere a noi stessi che l’ingratitudine e la mancanza di riconoscimento di un Dio che si comporta sempre da Padre, si riversa nell’odio e nell’indifferenza verso gli altri, da non riconoscerli come fratelli e sorelle. « Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri?» (cfr. Ml 1,14b – 2,2b.8-10).

Il monito della Liturgia di oggi intanto, è soprattutto rivolta verso coloro che hanno la responsabilità di essere i messaggeri, i sostenitori e difensori dell’amore di Dio per il popolo, quelli di ieri come quelli di oggi.

Allora, più che moltiplicare le parole, mettiamoci davanti al Dio del cielo  e della terra e con cuore contrito e umiliato, chiediamo perdono e grazia, chiediamo quell’umiltà che è l’unica verità di cui ogni razza, popolo e nazione ha bisogno per reincontrare la pace che è frutto di giustizia, ovvero: il riconoscimento della dignità di ogni essere umano come figlio e figlia del Dio Vivo.

 «Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato»(cfr. Mt 23,1-12).

                                                                                                              suor Maria Aparecida Da Silva

C'era un varietà televisivo della mia fanciullezza che terminava con una simpatica sigla nella
quale i due protagonisti, notissimi coniugi della comicità italiana, cantavano “Beato chi ci crede: noi
no, non ci crediamo!”. E questo ritornello mi risulta quasi naturale associarlo al brano di Vangelo di
questa solennità di Tutti i Santi, quel famoso annuncio con cui Gesù apre il cosiddetto Discorso
della Montagna del Vangelo di Matteo, e più in generale la propria attività di predicatore.
Proclama “beati” tutta una serie di persone che, agli occhi del mondo, tutto possono
sembrare meno che “beati”: pare, appunto, una specie di auspicio, molto utopico, di fronte al quale
ci piacerebbe davvero poter dare il nostro assenso, ma che guardando alla realtà dei fatti ci viene più
spontaneo liquidare dicendo “beato chi ci crede”!
Perché, stando a quanto vediamo accadere, è veramente difficile credere allo stato di
beatitudine dei “poveri”, materialmente o spiritualmente parlando: un poveraccio è tutt'altro meno
che beato. Definire “beati” quelli che sono nel pianto suona addirittura da presa in giro. Pensare che
una persona mite sia una persona “beata” lo si può fare solo nella misura in cui lo si pensa nella sua
dimensione interiore, forse perché vive in un mondo tutto suo, dal momento che vivere in questo
nostro mondo fa “incavolare” parecchio, altro che mitezza!
La presa in giro dello stato di beatitudine prosegue con coloro che hanno fame e sete della
giustizia: vallo a dire a coloro che stanno aspettando giustizia da mezzo secolo e più per la vita dei
loro cari, colpevoli solamente di essersi trovati di passaggio in piazza della Loggia a Brescia,
oppure allo sportello della Banca Nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana a Milano, o in attesa
del treno a Bologna il 2 agosto 1980, beati loro, forse, perché non sono sopravvissuti alla vergogna
che i loro familiari “assetati e affamati di giustizia”, e addirittura “perseguitati dalla giustizia”
hanno dovuto sopportare quando si sono sentiti dire che “il fatto non sussiste” e quanti “beati” come
loro, in questa nostra povera Italia.
Anche essere misericordiosi non è che sia esattamente una “beatitudine”, visto e considerato
che più sei buono e indulgente, e più te la fanno sotto il naso. E se provi ad avere purezza di cuore
con tutta la malizia che c'è in questo mondo, anche la migliore e la più innocente delle tue azioni e
delle tue parole verranno interpretate come qualcosa di cattivo, altro che “beato”!
E poi “beati gli operatori di pace”. Basta vedere come vengono ascoltati, in questi giorni,
quelli che gridano pace da ogni angolo della terra e la prima cosa che si guarda è il tipo di bandiera
che essi sventolano, e in base a quella, li si definisce pacifisti o terroristi e intanto non si ascolta il
grido disperato degli innocenti!
Davvero beato chi nonostante tutto riesce a convincersi che le cose possano cambiare,
perché noi comuni mortali facciamo tanta, troppa fatica a crederci!
   Ecco la festa di oggi, forse, viene anche a ricordarci che le cose possono cambiare, che la
vita può essere differente, se la guardiamo con occhi diversi, e che dire di loro “beati”, forse, non è
proclamare un dato di fatto, ma significa indicarci una speranza. Significa, cioè, che è possibile
essere beati in questo mondo nella misura in cui lo vogliamo migliore di come esso è, e facciamo di
tutto perché lo sia veramente.
Non solo: la Chiesa, in una celebrazione unica, ci mostra che lungo la storia qualcuno che ha
creduto al messaggio delle Beatitudini c'è stato veramente, e apparteneva a ogni nazione, tribù,
popolo e lingua, perché la Beatitudine, la capacità, cioè, di credere e lottare per un mondo nuovo,
non è prerogativa di alcun popolo, non parla una solo lingua, non è appannaggio di alcuna nazione
ed è possibile a tutti, e ci dobbiamo credere tutti.
Perché qualcuno, anzi, molti - “una moltitudine immensa che nessuno poteva contare”, dice
l’Apocalisse - lo ha fatto, e sono i santi e le sante di ogni tempo, di ogni cultura e di ogni fede.
Beati sono Francesco e Chiara di Assisi, perché poveri in spirito e nel corpo; beato è il
pianto di Monica di Ippona, perché le sue lacrime hanno reso santo il figlio Agostino, come le
lacrime di Maria Maddalena hanno fatto di lei l'apostola degli apostoli; beato è Giuseppe Diana,

beato è Pino Puglisi e tutti coloro che assetati e affamati di giustizia, pur essendo dalla giustizia
umana perseguitati, hanno amato il loro popolo fino al dono della vita.
Beata la mitezza di Francesco di Sales, di fronte alla quale la gente in Savoia si domandava
quanto doveva essere buono Dio, se il loro vescovo Francesco era così buono; beati i vari Leopoldo
Mandic, Padre Pio e tutti coloro che si sono consumati nel confessionale amministrando la
misericordia di Dio. Beata la purezza di cuore di Luigi Gonzaga e di Filippo Neri; beati Martin
Luther King, Gandhi, Giovanni XXIII, Tonino Bello, Charles de Foucauld, che hanno operato a
favore della pace, intesa davvero come non violenza, al contrario di coloro che teorizzano che se
vuoi la pace devi preparare la guerra.
Quanti beati nella storia e quanta nostalgia di beati come questi nei tempi che ci troviamo a
vivere. Ma oggi non è il giorno della nostalgia e del rimpianto: pensando a loro, è il giorno della
speranza; pensando a loro, oggi vogliamo dire: “Beato chi ci crede. Noi, sì, ci crediamo
veramente!”.

                                              don Franco Bartolino

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Nel nostro nome "Piccole Missionarie Eucaristiche" è sintetizzato il dono di Dio alla Congregazione. Piccole perchè tutto l'insegnamento di Madre Ilia sarà sempre un invito di umiltà, alla minorità come condizione privilegiata per ascoltare Dio e gli uomini.
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