Gesù vede persone stanche e sfiduciate e di fronte a questo bisogno, chiama alcuni uomini, dodici, per fare ciò che già lui faceva perché si rende conto che non può fare tutto da solo. Insomma Dio ha bisogno di farsi aiutare, ha bisogno di persone che lo sostengano nel suo lavoro. Ecco manifestata in tutta la sua semplicità il disagio di Gesù di fronte alla necessità di annunciare il vero volto del Padre ed è bello sapere che anche Lui, era consapevole di non poter fare tutto da solo e arrivare a tutti e allora ha chiesto aiuto. 

            L’elenco degli apostoli presentato da Matteo è a coppie. Un elenco davvero strano perché chiunque di noi avrebbe scelto persone culturalmente preparati e di spiccate virtù e invece nulla di tutto questo. È un gruppo davvero improponibile e li ha scelti senza fare calcoli sulla possibile efficacia. Li ha scelti tra gente comune, proprio perché è gente comune che forma il popolo di Dio che è la Chiesa. La Chiesa sarà sempre intrisa di santità e peccato perché è umana, molto umana e porterà sempre con sé i segni del limite.

            Eccoli allora i prescelti: dodici come i figli di Giacobbe, come le tribù di Israele. Pietro detto anche il primo e che si rivelerà il più fragile di tutti. Andrea fratello di Pietro. Giacomo e Giovanni, “figli del tuono”, dal carattere molto focoso. Questi quattro erano gli amici più stretti di Gesù. Poi Filippo il greco e Bartolomeo l’ebreo. Tommaso detto il gemello di Gesù.  Matteo il pubblicano che riscuoteva tasse. Simone detto lo zelota o sicario. Giacomo il tradizionalista. Taddeo il polemico e Giuda Iscariota di cui è inutile aggiungere altro. Un gruppo più insensato di questo, non poteva metterlo insieme che Gesù e non vi era nessun altro motivo per stare insieme, se non l’amore verso il Maestro.

            Nella Chiesa non ci siamo scelti, ci ha scelto. Ecco perché, per stare insieme, dobbiamo trovare motivi più profondi. Nelle nostre comunità spesso dimentichiamo che lavoriamo tutti per lo stesso progetto e spesso ci concentriamo più sul “come” perdendo di vista il “perché”.          

            È certamente bello vedere che tra gli apostoli c’è chi è diventato Papa, chi ha scritto un Vangelo, chi è rimasto nell’ombra, ma tutti uniti per annunciare il vero volto di Dio: questa è la vera Chiesa. All’uomo che soffre, Gesù invia altri uomini fragili e feriti, trasfigurati dal Suo amore. Questo elenco ci dice anche un’altra cosa: ciascuno è chiamato per nome perché davanti a Lui non siamo un raggruppamento ma siamo unici.

            «Strada facendo, predicate» ha detto Gesù perchè la missione è dinamica, non ammette soste, non ammette sedentarietà ne ritardi perché la salvezza si diffonde camminando insieme. Il cristianesimo, carissimi, non può mai essere immobilismo, ma è vita, cammino vissuto seguendo le orme del Maestro. Ecco perché è un cammino senza fine, desiderio di un incontro che resta sempre acceso.

            All’inizio Gesù aveva invitato a «pregare il Signore della messe perché mandi operai nella sua messe». In genere interpretiamo queste parole come un invito a pregare per le vocazioni al presbiterato. Non è affatto così: preghiamo perché mandi noi tutti a lavorare nel suo campo! Mandi me, come prete, come diacono, come suora, come uomo, come donna perché la messe, lo ripeto, è abbondante.

             È da quei improponibili discepoli che è partito il fiume di misericordia che è arrivato fino a noi ed è da quei dodici che abbiamo ricevuto il ritratto del vero volto di Dio che continua a servirsi ancora oggi di uomini e donne fragili e incostanti, per annunciare la bella e gioiosa notizia!

                                                                                                                                         don Franco Bartolino

L’Eucaristia è il dono più grande che Gesù ha fatto alla Chiesa! La festa di oggi ci riporta al pomeriggio del Giovedì santo, all’istituzione dell’Eucaristia, alla lavanda dei piedi, al comandamento nuovo dell’amore fraterno. L’evangelista Giovanni annota che «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine».

Eucaristia e carità fraterna si richiamano a vicenda e non possono essere disgiunte nella vita della chiesa, delle comunità cristiane, dei singoli credenti.

   Ogni volta che partecipiamo alla Messa oppure sostiamo in adorazione e in preghiera davanti al tabernacolo, siamo richiamati a pensare alla centralità dell’Eucaristia, alla sua importanza insostituibile per la vita e il cammino della Chiesa, per la nostra vita cristiana. Senza l’Eucaristia non ci potrebbe essere la Chiesa, così come senza la Chiesa non ci sarebbero celebrazioni eucaristiche. 

 Gesù, nel discorso pronunciato nella sinagoga di Cafarnao, dopo la moltiplicazione dei pani, indica la manna come segno del suo corpo e usa frasi incisive per indicarci la necessità di comunicare al suo corpo e al suo sangue: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo […] Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui».

 Le parole del Maestro Divino commentano con chiarezza il dono che egli sta per fare: «Prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi”» (cf Lc 22, 19-20).

 La presenza di Gesù nell’Eucaristia non è semplicemente la presenza del Risorto così come si manifestò agli apostoli nel cenacolo o sulla riva del lago di Tiberiade. Nell’Eucaristia è presente Gesù nel «gesto del dono di sé»: l’offerta d’Amore che egli ha vissuto sulla croce è l’atteggiamento perenne di Gesù tra le braccia del Padre, ed è con questo atteggiamento che Gesù si fa presente nell’Eucaristia diventando pane che ci nutre e ci trasforma.

Senza partecipazione assidua e frequente all’Eucaristia non c’è questa intimità profonda col Signore, che è la vera vite, non c’è una vita cristiana seriamente impegnata.

     Nel sacramento dell’Eucaristia Gesù ci ha lasciato un «testamento spirituale»: io vi ho amati fino al dono della vita e, se vorrete essere miei discepoli, anche voi dovrete fare altrettanto, amandovi gli uni gli altri con lo stesso amore.

 Lasciamoci, dunque, nutrire e plasmare dall’Eucaristia – sacramento che ci fortifica e sostiene nel nostro impegno di credenti e di discepoli – nel nostro cammino di fede, di speranza, di carità. 

 

  sr Annafranca  Romano           

La Liturgia di questa Domenica ci riporta alle nostre origine vere e profonde: il grembo della Trinità; lì dove siamo state pensati, amati, generati. Pertanto, non il peccato originale, ma l’amore, l’unità, la comunione. Ecco perché il nostro cuore prova costantemente una nostalgia divina, un desiderio, a volte inconsapevole, di ritrovarsi in un Volto (cfr. Es 33,18). E il Signore rompe definitivamente questo abisso eterno entrando nel Tempo, prima creando amici secondo il suo Cuore come Mosè, e poi inviando il Suo Unigenito, «irradiazione della Sua gloria e impronta della sua sostanza» (Eb 1,3). Mosè appunto, è prototipo di uno che sente ardere dentro di sé questo desiderio che arde senza consumare mai, trovando conforto proprio nel dono di amicizia con l’Eterno. «In quei giorni, Mosè si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano.
Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà».
Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità». (Es 34,4b-6.8-9).

Il dono dell’amicizia però non è una prerogativa di beatitudine personale, è dono per tutti, ecco perché Mosè si fa intercessore del suo popolo; egli sa che nessuno può camminare verso la “Terra Promessa” senza l’aiuto divino. Infatti Dio, che è amore e non si lascia vincere in generosità dona interamente sé stesso nel Suo Unico Figlio; lo invia, non per alcune situazioni, ma per tutto il tempo, per tutta la vita, per tutto il mondo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna (Gv 3,16)». Siamo generati e rigenerati dalla Trinità: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).

E la Chiesa, data al mondo nella Pentecoste, è diventata nel Tempo e nella Storia, il grembo dove si rigenera i figli di Dio dispersi, accogliendoli, preparandoli, accompagnandoli in questo breve peregrinaggio in cui trascorre la nostra vita, per poi ritrovarsi in Lui ed essere per sempre in quella comunione intratrinitaria, dalla quale il nostro cuore è attratto.

Per coloro che non credono, la comunità dei cristiani, anche se segnati da tante imperfezioni e limiti, ne è la manifestazione concreta, possiede e dona a chi vuole questa gioia, frutto della pace e dell’amore del Dio uno e Trino che si prende cura di noi.
«Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi.
Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano.
La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi». (2Cor 13,11-13).

                                                                                                                           suor Maria Aparecida Da Silva

Ci sono tante “sere” nella vita, tanti momenti in cui tutto sembra finire, soprattutto la speranza: e sono i momenti nei quali una novità che arriva dirompente non lascia certo il tempo che trova perchè ti scuote, ti rivoluziona, ti fa ribollire dentro, magari ti fa anche star male, ma è sempre qualcosa di profondamente decisivo.

È qualcosa che ti fa perdere la paura, che ti fa correre nel buio della notte, come accadde a quei due che da Gerusalemme stavano tornando al loro villaggio di Emmaus, privi di speranza, immersi in una sera nella quale l'unica novità poteva essere rappresentata da un pellegrino sconosciuto che camminava con loro parlando di ciò che era accaduto a Gesù nei giorni precedenti. E poi, l'intuizione di chiedere a quello sconosciuto “Resta con noi, perché è sera” e accorgersi che in quella sera della vita i loro occhi si riaprono alla speranza.

Capitò così anche la sera di Pentecoste, il giorno in cui i giudei osservanti celebravano la festa delle sette settimane, cioè il tempo trascorso dalla notte dell'Esodo al giorno in cui Mosè ricevette le Tavole della Legge sul Sinai; lo stesso tempo in cui, a primavera inoltrata, si iniziavano a raccogliere i primi frutti della terra. I Dodici, riuniti in un luogo a porte chiuse - chiuse come il loro cuore alla speranza - stanno per assistere alla conclusione dell'ennesimo giorno di festa trascorso come un giorno qualsiasi, senza alcuna voglia di festeggiare né la Legge di Mosè che il Maestro aveva insegnato loro a superare, né di gioire per i frutti di una terra che ora non avevano più, perché per seguire Lui avevano lasciato tutto in case, campi, terreni e familiari.

E così, mentre il giorno stava per finire, all'improvviso dal cielo arriva qualcosa che nessuno aspettava più, qualcosa che non rientrava nelle loro attese, qualcosa che sconvolge il loro torpore, qualcosa che illumina a giorno anche la sera più buia, qualcosa che non può lasciare indifferenti, qualcosa che sconvolge talmente le loro vite da prendere possesso addirittura della loro bocca e della loro voce permettendo loro di parlare in lingue diverse e totalmente sconosciute a chi, a mala pena sapeva solo l'aramaico materno.

Adesso, invece, si parla greco, latino, arabo perché è arrivato Qualcuno che non riesce a lasciare indifferenti, e quando arriva ti sconvolge l'esistenza, senza neppure lasciarti il tempo di ragionare perché la sua forza ti trascina per strada ad annunziare le grandi opere di Dio; e ciò che più sconvolge, è il fatto che arriva mentre il giorno di Pentecoste stava per finire. Sembra proprio che per Dio, e per il dono del suo Spirito, non è mai troppo tardi.

                                                                                                                               don Franco Bartolino

 

 

        “Quante volte ho guardato al cielo...”, cantava - negli anni della mia giovinezza - uno dei miei cantanti preferiti. E quando lo ascoltavo, pensavo a quante volte, anche io, ho guardato e continuo a guardare al cielo; così come credo faccia ognuno di noi, ognuno con motivazioni e intensità di emozioni diverse.

Guardiamo al cielo anche solo per capire come sarà il tempo, se dobbiamo uscire di casa con l'ombrello oppure possiamo fidarci del nostro istinto. Guardiamo al cielo per goderci, a volte, lo spettacolo di colori e di contrasti che esso crea, soprattutto in prossimità o poco dopo un temporale estivo. Guardiamo al cielo quando il suo colore azzurro naturale viene soppiantato dal rosso vivo di un tramonto.

Guardiamo al cielo quando passeggiamo sulla riva del mare per capire dove inizia uno e finisce l'altro. E poi, guardiamo al cielo anche per provare sentimenti di pace, per cercare serenità, per trovare risposte ai nostri perchè, a volte per gridare la nostra rabbia.

 Guardiamo al cielo per chiedere ai suoi abitanti di non dimenticarsi di noi, di guardare giù, ogni tanto, su questa benedetta terra e sui suoi abitanti che comunque, nella vita, spesso rivolgono lo sguardo al cielo, anche solo per mandare una preghiera o un pensiero carico di affetto ai nostri cari che sono già volati lassù e ci aspettano, magari presto, perché ci mancano così tanto da non poter resistere più di tanto senza di loro.

Quante volte guardiamo al cielo, per i più disparati motivi e quasi tutti accumunati da un unico intento, quello di guardare il meno possibile in terra, perché qui, sulla terra, tutti quei sentimenti di pace, di serenità e di infinito non riusciamo proprio a scorgerli. Guardando lassù, invece, magari qualche risposta e qualche stimolo per andare avanti riusciamo ancora a trovarlo.

 Forse pensavano così anche quegli Undici uomini di Galilea, intenti a fissare il cielo mentre il Maestro veniva elevato in alto, sottratto al loro sguardo da una nube che impediva loro di guardare in profondità, per vedere dove sarebbe andato; forse per poterlo raggiungere, un giorno, o forse anche solo per sapere in che direzione rivolgergli le loro suppliche e le loro richieste.    Ma, poveretti, non ne ebbero neppure il tempo. Si presentarono loro due uomini in bianche vesti, dicendo: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?”. Quasi a dire: “Perché state lì a perdere il vostro tempo guardando in aria con nostalgia?”.

            Cari uomini in bianche vesti, lo sappiamo noi il perché; sappiamo noi perché stiamo a guardare il cielo. E voi, non ce lo impedite, almeno oggi. Non toglieteci il cielo: perché guardare il cielo, ogni tanto, ci fa bene, ci gratifica molto di più che guardare in terra, a questa terra che comunque guardiamo e vediamo tutti i giorni, e che non sempre offre visioni così gratificanti. Forse, però, se guardiamo al cielo, un po' di forza e un po' di voglia di andare avanti riusciamo ancora a ritrovarle.

                                                                                               don Franco Bartolino

Su di noi

Nel nostro nome "Piccole Missionarie Eucaristiche" è sintetizzato il dono di Dio alla Congregazione. Piccole perchè tutto l'insegnamento di Madre Ilia sarà sempre un invito di umiltà, alla minorità come condizione privilegiata per ascoltare Dio e gli uomini.
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