La mentalità corrente nella nostra società, costruisce tutto quanto sull'apparenza, sull'immagine. È sintomatico che il social più diffuso e più antico tra quelli in uso attualmente abbia un nome traducibile con “libro di facce” e potremmo benissimo tradurlo con “libro di facciata”, perché ciò che conta è l'immagine, l'apparenza, ciò che si vede. E ciò che è visibile agli occhi dev'essere all'apparenza efficiente, bello, gradevole, perfetto, senza difetti di sorta.

               “All'apparenza”, per l'appunto, e non “nella sostanza”: ciò che appare, ciò che si vede o si vuol far vedere agli altri di noi stessi deve essere “piacevole, gradevole e perfetto”. Ciò che invece si è realmente, ciò che si è “nella sostanza”, ossia quello che c'è dentro la persona, può anche essere pieno di immoralità, di scorrettezze e di disonestà, ma questo poco conta, perché in apparenza nessuno lo vede e perché - ci si giustifica spesso così - “quello che uno fa o quello che è nel privato, è un problema suo”, l'importante è che non appaia pubblicamente. Quello che, invece, c'è nella sostanza e nel cuore di una persona non appare all'esterno, per cui non “influenza” l'opinione pubblica, non fa “marketing”. Essere efficienti significa “rendere” da un punto di vista economico: e tu puoi “rendere” solo se sei capace di vendere un'immagine di te che poco importa se non corrisponde alla realtà, l'importante è che appaia come bella ed efficiente.

               Ma l'efficientismo, il culto dell'apparire perfetti, pieni di vitalità e di potenzialità elevate all'infinito, si scontra ed entra in profonda contraddizione con quella che è la realtà della vita umana. Il mito del “bello, perfetto ed efficiente” va costantemente a sbattere la testa contro il muro della quotidianità, fatta di limiti, di imperfezioni, di sofferenze, di malattie e - in definitiva - di morte. Sofferenze, malattie e morte che fanno male, soprattutto quando debilitano per lungo tempo come nel caso emblematico della donna del vangelo, affetta da dodici anni di emorragie, sia fisiche che economiche o quando colpiscono l'uomo nel fior fiore della sua efficienza e della sua giovane età, come nel caso della figlia di Giairo.

               E il muro del male e della morte, entrato nel mondo - secondo quanto dice il libro della Sapienza nella prima lettura - a causa della disobbedienza dell'uomo che voleva pretendere di essere come Dio, è qualcosa contro il quale ci sbattono tutti, chi in maniera più serena, chi in maniera più drammatica: gente comune, gente nota e semplici uomini della strada, ricchi e poveri, signorotti e poveri diavoli.

               Grazie a Dio, c'è chi alla vita crede e continua e credere non perché lotta contro la morte e la malattia in un disperato tentativo di essere sempre “più sano e più bello”, e quindi più “appetibile” agli occhi del mondo, ma perché sa che l'uomo ha una dimensione più profonda e più sincera del puro apparire, che va ben oltre la malattia e la morte e che addirittura riesce a sconfiggerle. Non le elimina affatto, ma contro di loro continua a giocare alla partita della vita e tra l'altro, vince sempre perché sa che c'è un Dio che può ridare vita anche solo imponendo le mani; perché sa che c'è un Dio che semplicemente lascia che a toccare il suo mantello sia un'umanità che cerca e ottiene vita; perché sa che c'è un Dio che è sollecito nei confronti dell'uomo e va in cerca di lui anche quando la società vorrebbe metterlo ai margini; perché sa che c'è un Dio che si ostina a credere nella vita anche quando “sarebbe meglio non disturbarlo più” perché non c'è più nulla da fare, anche quando tutti lo deridono e si prendono gioco di lui perché insiste a voler prendere per mano e far rialzare verso la vita chi apparentemente giace nell'ombra della morte.

               Ma questo Dio esige dall'uomo fede in lui e nella vita, non vuole inutili perdite di tempo verso apparenti segni di efficienza e in forza della sua condivisione con il nostro dolore e i nostri quotidiani sacrifici, egli ci aiuta a capire che la vita vera non passa attraverso una frenetica ed esasperata processione ai centri di chirurgia estetica, alle palestre o davanti alle telecamere del reality di turno, né attraverso selfie fatti assumendo le facce e le posizioni più ammiccanti possibili, pur di “apparire”. La vita vera è quella che va alla ricerca di ciò che conta, alla ricerca del Maestro, a volte spingendo per farsi spazio tra la folla; è condividere come lui e insieme con lui le sofferenze umane; è riempirle di eternità, è ridare loro la speranza che spesso hanno perduto correndo dietro alla stupida moda dell'essere “visibile a ogni costo”.

                                                                                                                                                             don Franco Bartolino

Siamo di nuovo qui, dopo sole due settimane, a interrogarci con e su Dio: dopo il “Dove sei?” di Dio a Adamo, oggi siamo noi a chiedere qualcosa a Dio attraverso le due domande espresse dai discepoli nel brano che abbiamo ascoltato: “Maestro, non t'importa che siamo perduti?” e “Chi è dunque costui?”. Sono le domande su cui la nostra fede spesso si interroga, molto più spesso di quanto crediamo: “Ma dov'è Dio? E chi è? E perché fa così?”, ovvero l'assenza-presenza di Dio nella nostra vita. Alla mente, mi tornano le parole del profeta Isaia: “Veramente tu sei un Dio misterioso”, quel “Deus absconditus” il cui pensiero ha affascinato spesso le ricerche dei grandi pensatori e filosofi. Penso in modo particolare ad Agostino d'Ippona, a Erasmo da Rotterdam, a Pascal, a Giovanni della Croce, più recentemente a David Maria Turoldo. Dio, nella nostra vita, spesso ci appare più come “mistero” che come “gloria”, più come “ombra” che come “luce”, più come interrogativo che come risposta. E ciò avviene, inspiegabilmente, quando abbiamo una certa familiarità con lui, quando ci sembra che tutto sommato stiamo facendo un percorso serio a contatto con la sua parola.

               Qualche domanda a questo Dio ci verrebbe proprio da fargliela, come già avvenne al profeta Geremia: “Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa contendere con te, ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia. Perché la via degli empi prospera? Perché tutti i traditori sono tranquilli?”. Detto con parole nostre: come mai non fai niente per aiutare coloro che ti sono fedeli, mentre a coloro che di te se ne fregano altamente vanno tutte bene nella vita? Sono parole “eccessive” nei confronti di Dio? Se guardiamo alla prima lettura di oggi, direi proprio di no.

               Giobbe era l'emblema dell'uomo retto e scrupoloso fino all'eccesso nel non peccare e nel fare in modo che anche i peccati dei suoi famigliari fossero perdonati da Dio. Eppure, Dio, attraverso un misterioso disegno lo mette alla prova con tutta una serie di disgrazie, personali e collettive, nemmeno di fronte alle quali, però, la sua fede vacilla. Fino a quando qualche “amico”, cerca di spiegare a Giobbe che Dio ragiona per mezzo di un concetto “retributivo” di giustizia, ossia che è talmente giusto che a ognuno dà secondo le sue opere. Se quindi a Giobbe sono successe solo disgrazie, è perché la sua era una bontà solo apparente: in realtà, è un peccatore incallito, per questo Dio lo condanna e lo castiga. È qui che Giobbe non resiste più, e allora insorge contro un Dio ingiusto, che si diverte a fargli del male.  “Dove sei, Dio? E perché fai così? Non ti importa nulla di me? Perché dormi?”: sono le parole di Giobbe, ma sono anche le parole dei discepoli che pensavano di potersi sentire sicuri con Gesù sulla barca, per cui non riescono a darsi spiegazioni di fronte a un Dio che non solo non impedisce la tempesta, ma addirittura se la dorme beatamente, incurante del dramma di coloro che pensavano essere suoi amici e compagni di viaggio.

               “Dove sei, Dio? E perché fai così con noi? Perché dormi, quando abbiamo bisogno di te? Perché lasci che la nostra vita vada alla deriva? E perché, soprattutto, non rispondi? Abbiamo bisogno della tua presenza, della tua essenza, non della tua assenza”: non sono forse, spesso, domande che pure noi ci facciamo e che sembrano non ricevere risposte soddisfacenti da Dio? Ma Dio risponde eccome, sia a Giobbe “in mezzo all'uragano” della vita, sia ai discepoli nella tempesta, ovvero proprio quando noi, uomini e donne di poca fede, non abbiamo orecchi attenti per ascoltarlo. E ci porge nuovamente la stessa domanda: “Dove sei tu? E perché hai paura, invece di avere fede?”. Ti sei forse dimenticato che io sono Dio, e ho il potere di mettere a tacere una tempesta sul mare, mentre tu no? E dove sei, quando io ti chiedo di prenderti le tue responsabilità di credente? Dove sei, ogni volta che io ho bisogno di te per essere annunciato ai fratelli? Dove sei, quando devi annunciare agli altri la misericordia che ho avuto con te? Dove sei tu, quando i tuoi fratelli muoiono di fame, quando i loro diritti sono calpestati, quando le porte si chiudono in faccia a chi ha bisogno di amore, quando devi costruire la pace e invece pensi solo a vendere armi di morte?

               Siamo onesti: sono più le volte in cui noi siamo lontani da Dio di quelle in cui lui non si sente, e noi lì, pronti a rinfacciargli la sua assenza. Ma tutto ciò è così profondamente umano. Fa parte del gioco della vita e della fede vedere Dio come luce e ombra, come attività e sonno, come sole e tempesta. Troppo facile sarebbe, per noi, avere sempre un Dio di luce. Tu, Signore, rimani davvero, un Dio misterioso. Permettici anche solo, per un momento, di continuare il cammino con te, di salire nuovamente sulla barca per raggiungere altre rive anche se, venuta la sera, la tempesta quotidiana ci porterà a chiederti se davvero t'importa qualcosa di noi.

                                                                                                                                                                               don Franco Bartolino 

Quante cose misteriose accadono, nella vita. Come spiegare, ad esempio, l'amore che sboccia tra due persone diametralmente opposte tra di loro? Oppure, come possa un ragazzino con mille grilli per la testa, che fa il diavolo a quattro e che nemmeno il miglior educatore saprebbe gestire, a essere il primo della classe e ad avere il massimo rendimento scolastico? E come è possibile che da alcune periferie della nostra città di Napoli, dove si respira solo violenza e dove portare a casa sana e salva la pelle è un'impresa quotidiana, possano scaturire meravigliosi esempi di riscatto, di voglia di vivere, di tenerezza familiare, di amore verso l'uomo e il creato, di attenzione verso i più deboli? In tutti questi esempi, e in molti altri che ognuno di noi può ricordare per esperienza diretta, si nascondono semi di vita e di speranza che sono ben difficili da spiegare, a volte addirittura da narrare, ma che di certo sperimentiamo e avvertiamo in maniera evidente e decisa. E spesso, questi semi di vita e di speranza rimangono ben impressi nel cuore e nella vita di ognuno di noi che segna anche una svolta nella costruzione della nostra storia e della nostra identità. Pensiamo anche solo al momento in cui nasce una vocazione, una missione, una scelta di vita, a qualunque realtà ci si senta chiamati: difficilmente la puoi dire, eppure la senti dentro e poi la segui. Ecco perché Gesù parlava esprimendo misteri “detti e non detti”, narrati e non del tutto espressi, evidenti ma anche nascosti, ossia “in parabole”: perché in realtà, Dio stesso è così. Dio si rivela proprio nei misteri di cose dette e non dette, di cose espresse e non del tutto comprese, di fatti della storia che spesso noi non comprendiamo ma nei quali poi ognuno di noi è chiamato a inserirsi con la sua personalissima storia, che però alla fine rimane sempre e comunque condotta da Dio. Come questo avvenga, nessuno di noi bene lo sa. Come l'agricoltore che semina un seme nella terra, ed esso cresce senza che egli sappia per quale motivo o con quali tempi e modalità ciò avvenga, e soprattutto indipendentemente da quanto egli sia in grado di fare.

                Dalla parabola del seme che cresce da solo portiamo a casa l'insegnamento di un mistero grande di Dio, e cioè che Dio realizza sempre e comunque il suo regno, nonostante tutto. Nonostante buona parte del seme che egli semina cada in tipi di terreno che fanno ben poco sperare. Pensiamo alla più famosa parabola, quella del seminatore, che nel Vangelo di Marco viene poco prima di quelle che abbiamo letto: il seme è gettato a larghe mani, dappertutto, quasi buttato via, eppure cresce, e come faccia, nemmeno il contadino lo sa, e comunque porta frutto abbondante. E nemmeno si sa come un microscopico seme, come quello di senape, poco più grande di un filo di polvere, possa poi crescere e diventare un albero che dà nido e riparo agli uccelli del cielo.

                Così come nessuno sa, a parte Dio, come le cose più insignificanti agli occhi degli uomini possano diventare talmente grandi da offrire a ogni uomo segni evidenti dell'amore di Dio. Basta pensare da dove saltano fuori i santi: non tutti sono grandi maestri e dottori, all'interno della Chiesa! Una piccola contadina di uno sperduto villaggio dei Pirenei, ad esempio, diventa ambasciatrice dell'amore misericordioso di Maria per tutti i malati e i sofferenti; una minuta e gracile suora albanese si fa piccola matita nelle mani di Dio per scrivere le più belle storie di carità fra le strade di Calcutta; il figlio di una povera famiglia di contadini di uno sconosciuto paesino della bergamasca, tanto sconosciuto da essere collocato “sotto il monte”, rivoluziona la Chiesa e il mondo invitando a dare una carezza ai bambini e indicendo il più sconvolgente dei Concili che la Chiesa abbia vissuto.

                Ma questo era già successo molti anni prima, quando dodici umili pescatori, falegnami, disonesti esattori delle tasse e mezzi terroristi di Galilea diventano annunciatori delle grandi opere di Dio a ogni nazione e in ogni lingua per colpa di Dio stesso, che in un villaggio insignificante della Giudea, chiamato Betlemme, dove oggi nessuno sceglierebbe di costruirsi una casa, scelse di far nascere suo Figlio, forse “la più vera parabola pronunciata da Dio”, come amava dire papa Benedetto XVI. E come mai Dio fa queste cose? Come mai preferisce una parabola a un discorso ufficiale, un silenzio eloquente a un'affermazione dottrinale, un insignificante gesto a un'azione roboante?

                Non lo sappiamo, e anche questo fa parte delle cose di Dio e dei suoi misteri. Non possiamo pretendere di avere le ricette per le grandi questioni della vita, visto che non abbiamo neppure le ricette per i molti piccoli e grandi problemi che ci troviamo a vivere nel quotidiano; ma se avessimo anche solo la capacità di lasciarci stupire e meravigliare dai misteri che Dio attua ogni giorno nella vita delle persone, impareremmo senz'altro a giudicare di meno, a criticare di meno, ad avere meno pregiudizi, a non condannare affatto chi risponde alle varie situazioni della vita con modalità che a noi sembrano strane, insignificanti, misteriose o addirittura prive di senso, eppure porta frutto. Dio, allora come oggi, continua a parlarci in parabole; e difficilmente cambierà idea.

                                                                                                                don Franco Bartolino

Terminate le tre grandi solennità del Signore, che ci hanno aiutato a entrare nel cuore stesso di Dio, il cui amore trinitario si fa cibo e bevanda di vita per chi crede in Lui, e misericordia per chi lo accoglie nella propria vita, le nostre domeniche riassumono il colore verde della speranza, che ci accompagnerà lungo tutto il Tempo Ordinario, ossia nell'ordinarietà del nostro cammino di fede, celebrato la domenica in comunità e vissuto nel nostro lavoro quotidiano, nelle nostre quotidiane passioni, nei nostri quotidiani desideri, e ovviamente anche nelle nostre quotidiane povertà, nella quotidiana fatica di incontrare Dio e di vedere i segni della sua presenza nella nostra vita di ogni giorno. E anche se spesso invochiamo e desideriamo un po' di quotidianità e di normalità nella vita di fede, questa ordinarietà non è certo un cammino facile, anzi, si presenta pieno di insidie.

         Quando, infatti, viviamo celebrazioni particolari come quelle che abbiamo vissuto nelle scorse domeniche, oppure durante i tempi forti della Quaresima e della Pasqua, la possibilità di sentire il Signore presente, di incontrarlo e di vederlo vicino a noi, si fa senz'altro più concreta e si avverte un maggior entusiasmo. Poi, però, l'ordinarietà che a volte erroneamente ci trascina in un senso di noia che alla fine sfocia in domande che noi rivolgiamo al Dio “nascosto” e uno di questi interrogativi è presente sia pur formulato in maniera inversa nella Liturgia della Parola di oggi: “dove sei?”.

         Noi, Signore, ce lo chiediamo spesso “dove sei”. Dove sei, se fino a poche settimane fa eri nel sorriso agitato e meraviglioso dei bambini della prima Eucarestia, e ora siamo quasi costretti a incrociarti negli sguardi stanchi e affaticati dei pochi anziani che ancora frequentano quotidianamente le nostre chiese? Dove sei, se guardandoti presente nell'Eucarestia ci hai fatto sentire una pace e un calore interiore che poi ti sei affrettato a smorzare con una serie di problemi che ci hanno impedito domenica di fare processione del Corpus Domini? Dove sei, adesso che, passate le feste, sentiamo un senso di noia e di stanchezza e a tutto pensiamo - vacanze, sole, mare - meno che a te? Dove sei, se le notizie che leggiamo sui giornali di ogni giorno o le immagini che vediamo quotidianamente in televisione o sui social, di tutto ci parlano meno che di quella gioia, di quella pace e di quella vita che tu ci hai fatto credere di essere? Sembra proprio che le forze del male, nella vita di ogni giorno, abbiano il sopravvento su di noi e magari senza che Dio faccia nulla per risparmiarci tante sofferenze, e la cosa viene da molto lontano, come abbiamo ascoltato dal Libro del Genesi.

         Ma del resto, che il male avesse invaso la vita dell'uomo lo dicevano anche di te, Signore, l'abbiamo ascoltato nel Vangelo di oggi: e vuoi che non lo dicano di noi? Anche i tuoi parenti, preoccupati per ciò che dicevano di te, vengono a dirti il loro “dove sei?”, ti vengono a cercare, addirittura ti vogliono portare via perché credono che tu non ci stia più con la testa. Oppure c'è chi, come gli scribi, vuole farti prigioniero, così come spesso vorremmo “catturarti” anche noi, nel momento in cui ti troviamo, perché almeno così te ne resti con noi e non ci metti più in crisi. Sì, perché tu ci metti effettivamente in crisi, quando quella stessa domanda la rivolgi a ognuno di noi e non da oggi, ma da sempre, da che mondo è mondo: “uomo, donna, dove sei?”.

         Quel “dove sei” rivolto da Adamo a Dio pesa infinitamente di più di tutti i “dove sei” che noi rivolgiamo a Dio, quando gli rinfacciamo di non esserci più, di sparire dalla nostra vita, di giocare a nascondino con noi. Perché in fondo, Dio non vuole che scappiamo da lui per la vergogna di essere nudi alla sua vista: del resto, ci ha creati lui, volete che non sappia come siamo fatti? Dio non vuole che noi non pecchiamo: sa benissimo che ci risulta impossibile. Dio non ci vuole perfetti: sa benissimo che non ne siamo capaci. Dio non ci vuole irreprensibili e nemmeno liberi da tentazioni: sa benissimo che la nostra è la stirpe del “calcagno insidiato”, del serpente avvolto alle nostre caviglie, sempre vivo, sempre con le fauci aperte, pronto a morderci in ogni istante.

         Dio non ci vuole impeccabili: ci vuole felici, e per questo vuole che al male schiacciamo la testa, che al male impediamo di avere il sopravvento su di noi. Ma per fare questo, dobbiamo avere il coraggio di guardare il male dritto negli occhi, dobbiamo affrontarlo come Dio lo affronta, a viso aperto, prendendoci le nostre responsabilità, ammettendo che sì, è vero, siamo peccatori, ma ciò non toglie nulla al suo amore per noi, anzi! L'importante è avere il coraggio di rispondere noi, per primi, a quella domanda che invece abbiamo la sfrontatezza di rivolgere a lui: “dove sei?”.

         Non abbiamo paura di dire a Dio la verità: “Guarda, mi sono nascosto da te perché ho sbagliato”. Non abbiamo paura di dire a Dio: “Sono stato io”, invece di dare la colpa a chi ci è a fianco o a chi ci inganna, o al sistema, o ai cattivi di turno o, peggio ancora, a Dio stesso, che fa lo sbaglio di mettere al nostro fianco le persone sbagliate!

         Se avremo il coraggio, di fronte al “dove sei?” di Dio, di rispondere: “Sono qui, ho sbagliato”, saremo in grado anche di ascoltare la sua risposta ai nostri innumerevoli “dove sei, Dio?” e la sua risposta è semplice: “sono qui, non me non sono mai andato. Perché anche se tu pensi che io mi sia nascosto, o che io sia andato fuori di testa e mi sia dimenticato di te, tu per me sarai sempre fratello, sorella e madre perché io ti amo”.

 

 

 

«Ecco il sangue dell'alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!»

E’ così che Mosè conclude il rito dell’alleanza stabilito tra Dio e il suo popolo, che peraltro ha giurato fedeltà al patto stabilito, e che purtroppo, non è riuscito a mantenerlo, né a parole né nella vita (cfr. Es 24.3-8). E’ dalla parte del Signore che l’alleanza, non solo è stata mantenuta, come si è compiuta definitivamente nel sangue di Gesù, l’agnello senza macchia: «Venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d'uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna» (Eb 9,11-15).

Ecco perché la nostra vita deve diventare una liturgia continua di azione di grazie. Il Signore ci ha redenti “per sempre”, non ha giocato con noi. Il suo Corpo e il suo sangue continuano tutt’oggi a dare significato alla nostra esistenza e attraverso di essa all’esistenza del mondo, dove, ogni giorno Egli si immola attualizzando la redenzione, rendendoci partecipi dell’alleanza eterna, in comunione di fede e di amore. «Mentre mangiavano, prese il pane e lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”.

Ecco perché è espressiva l’uscita di tutta la Chiesa che segue il Signore in processione in questa giornata santa: siamo il popolo della Nuova ed Eterna alleanza; siamo non solo testimone della Sua Eucaristia, ma continuità di quella unica messa pasquale che attraversa la Storia, i secoli, le generazioni; che accompagna l’evoluzione e le grandi trasformazioni del mondo, perché il disegno del Padre è fare di Cristo il cuore del mondo(cfr. Ef 1,3-10).

Allora, anche oggi, con tutta la Chiesa domandiamo a Cristo: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?»(cfr. Mc 14,12-16.22-26). Ed è sempre precisa la risposta del Signore, e vedremo il compiersi delle sue parole se veramente ci crederemo in essa. E ancora una volta, vedremo con i nostri occhi il dispiegarsi di quelle mani che spezzano, benedicono e  dona interamente Sé stesso per noi, facendo di noi corpo del Suo Corpo, sangue del Suo sangue, vita della Sua Vita.

Con ragione allora, anche noi, possiamo cantare con il salmista: «Che cosa renderò al Signore,
per tutti i benefici che mi ha fatto?» (Sl 115).

 

 

 

 

 

 

Su di noi

Nel nostro nome "Piccole Missionarie Eucaristiche" è sintetizzato il dono di Dio alla Congregazione. Piccole perchè tutto l'insegnamento di Madre Ilia sarà sempre un invito di umiltà, alla minorità come condizione privilegiata per ascoltare Dio e gli uomini.
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