Il cammino quaresimale procede a grandi passi. Il Vangelo di questa domenica narra l’incontro di Gesù con Nicodemo, uomo colto, appartenente alla setta dei farisei e membro del Sinedrio. Non aveva ancora capito bene chi fosse Gesù e perché fosse venuto nel mondo. Ne aveva sentito parlare, sapeva che si definiva Figlio di Dio e voleva delle prove da Lui. Decide di incontrarlo di notte, per non farsi vedere dagli altri farisei e per rivolgergli alcune domande su Dio, sulla morte, sull’aldilà. Gesù gli risponde e nello stesso tempo si rivela: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna».
Con questa frase vuol far comprendere a Nicodemo, e a noi, che Dio è soprattutto amore e ciò che ha fatto è solo per amore. Anche di fronte alla nostra infedeltà, Egli continua ad amarci. Gesù ricorda inoltre un episodio della storia del popolo di Israele, narrata nella Bibbia; quando gli ebrei erano stati colpiti dai morsi letali dei serpenti e Mosè, su invito di Dio, fece innalzare un serpente di bronzo e chi lo guardava veniva subito guarito. È facile comprendere che chi guarderà con l’occhio della fede Cristo, avrà la vita eterna.
Per far comprendere meglio cosa significhi credere, Gesù usa la simbologia della luce e delle tenebre, indicando nella luce l’amore di Dio per l’uomo e nelle tenebre le opere malvagie. Dunque, non bisogna fermarsi all’Antico Testamento, come pensava Nicodemo, ma è necessario accogliere la persona di Gesù, che con la sua luce, ci guida fuori dal buio. Purtroppo, molti la rifiutano e preferiscono vivere nelle tenebre. Amano compiere il male e chi lo fa odia la luce, non intende accostarsi ad essa. Al contrario, chi si dedica alle opere buone si avvicina continuamente alla luce, rispondendo alla volontà di Dio ed entrando in comunione con Lui.
Occorre ascoltare e mettere in pratica la Parola, che è Gesù Cristo, accoglierla, credere in essa, custodirla nel cuore, osservarla e testimoniarla. Vivere nella luce o nelle tenebre è una decisione da prendere qui ed ora, nelle azioni di tutti i giorni, quelle che il Signore ci invita a compiere. Come per Nicodemo, comincia a farsi giorno per tutti, quando si crede e si ama, si producono frutti duraturi. In queste ultime settimane di Quaresima impegniamoci con maggior entusiasmo ad incontrare il Signore, cerchiamo di stare alla sua presenza, interrogandolo, come Nicodemo, e ancor di più ascoltandolo, per comprendere se viviamo nella luce dell’amore o nelle tenebre del male e dell’egoismo.
Il viaggio di Nicodemo è il viaggio di ogni uomo: tutti sperimentiamo situazioni di notte, in cui le ombre assumono forme strane e minacciose. Tutti abbiamo paura di perdere le nostre sicurezze, di abbandonare i nostri punti di vista, le certezze che ci siamo costruiti. Ma a volte la realtà bussa alla nostra porta e ci mette in crisi. Nicodemo non cerca di vincere da solo le sue paure, ma cerca una luce. Si mette dietro a quella luce e cammina.
Come gli israeliti dovevano guardare il serpente di rame elevato sull’asta da Mosè, così Nicodemo deve guardare la croce che gli fa paura, per scoprire che su quella croce non deve salirci lui, perché un altro ha preso il suo posto.
La croce è tutto quello che ci spaventa, è la morte, il giudizio, l’abbandono e la solitudine. Gesù ci dice di guardare quella croce che ci fa paura per scoprire che Lui l’ha presa su di sé al posto nostro. E così, guardando la croce, potremo essere guariti.
«In quei giorni, Dio pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra» (Es 20,1-17)
Ecco la grande sfida dell’essere umano, chissà soprattutto dell’uomo del Terzo Millennio: “Non avrai altri dei…. Non farai idolo né immagine….”. Questo ordine del Signore al popolo di Israele e attraverso di loro a tutti i popoli, non è una sostituzione della schiavitù vissuta sotto il Dominio degli Egiziani, ma il segreto della vera libertà, di un vissuto che porta all’ordine, alla giustizia, alla pace e fraternità. Gli altri dei costruite da mano degli uomini non liberano, la Storia di tutti i tempi lo ha dimostrato e continua a dimostrarlo. L’immagine da essere rispettata e amata è solo l’immagine di Dio presente ad ogni essere umano, appunto creato(a) a Immagine di Dio.
Quanta fatica per capire questa verità che è davanti ai nostri occhi!
Ecco perché l’annuncio della Chiesa costituisce sempre uno scandalo per il mondo:
«Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1,22-25).
La Chiesa è e continua a testimoniare e ad annunciare che Dio è folle di amore perché Cristo è Presente nell’Umanità soffrendo e morendo in ogni uomo o donna che vengono uccisi, maltrattati, oltraggiati, diminuiti nella loro dignità. In Cristo, che ogni giorno si dà nell’Eucaristia in ogni altare del mondo, Dio continua a perdonare e credere nell’essere umano, perché è questa immagine da essere riscattata, purificata, salvata. Ecco lo scandalo quotidiano dell’Amore: l’unica debolezza di Dio. Ed è proprio qui che ritroviamo Gesù, che con ragione, prende la frusta, perché non può sopportare di vedere a che cosa riduciamo sia il culto rivolto a Dio, usato per gli interessi di guadagno e per opprimere, sia il tempio dell’altro, fratello, fatto a immagine di Dio, dimora dello Spirito, figlio nel Figlio.«Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà» ( cfr.Gv 2,13-25).
Vieni Gesù, tu che conosci quello che c’è in ogni uomo, prendi la frusta, libera l’uomo degli idoli, delle sfumature, dei trucchi, delle maschere in cui ci troviamo. Rivestici dalla tua Immagine, Signore Risorto, e cammina con noi nella direzione della Pasqua eterna. Amen.
“Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?”. Se Dio ha sempre dimostrato di stare dalla parte dell'uomo, al punto da farsi uomo egli stesso, come può l'uomo pensare che Dio sia suo antagonista, suo avversario? E se ha sempre voluto per l'uomo ciò che è bello e ciò che è buono, come può l'uomo immaginare che Dio cambi parere e gli si rivolti contro?
Perché Dio fa così con Abramo - e spesso anche con noi - mostrandosi allo stesso tempo buono e terribile, amabile e incomprensibile, affascinante e tremendo? Perché in alcuni momenti è una fonte inesauribile di gioia e di entusiasmo e in altri momenti diviene fonte di dolore, di paura, di rassegnazione? Perché è, al tempo stesso, croce e resurrezione? Non sarebbe più facile avere un Dio sempre splendente, come quello della Trasfigurazione, senza la necessità di entrare nella nube del mistero che è spesso accompagnata da grandi sofferenze e soprattutto da un enorme silenzio?
Se la nostra fiducia in Dio non fosse il risultato di un cammino che, anche attraverso l'esperienza del dolore e della fatica, ci cambia e ci trasfigura a sua immagine, non potremmo dire di credere veramente in lui. Se la nostra fede fosse solamente illuminata dalla luce gloriosa della Domenica di Pasqua evitando l'oscurità del Calvario, non saremmo onesti con Dio, e nemmeno con noi stessi e con la nostra esistenza quotidiana, fatta di chiaroscuri, di parole rassicuranti e di silenzi insopportabili. Eppure, questa nostra fede, qui come in altre occasioni, non fa altro che ricordarci ciò che avviene nell'esistenza quotidiana di ognuno di noi: ovvero, che non c'è croce senza resurrezione.
Nessuno di noi, per quanto successo possa avere avuto nella vita, può dire di aver realizzato i propri progetti senza sofferenze: se fosse così, ciò che si è costruito è falso, o forse addirittura disonesto. Così come è disonesto pretendere che Dio ci mostri solo il suo aspetto glorioso, perché ci fa sentire bene, come Pietro, che vorrebbe fermare il tempo costruendo tre capanne. Oppure - se vogliamo dirla in positivo - pensare che una vita fatta di sacrifici onesti e di fatiche finalizzate alla costruzione del bene per sé e per i propri cari non possa essere accompagnata anche da gioie e soddisfazioni, significa vivere senza speranza.
Insomma, il gioco della vita ci trasfigura, in tutti i sensi, nel bene e nel male, nelle gioie e nei dolori, nei successi e nei tracolli. Anche tutte queste crisi belliche e umanitarie che a livello globale ci stanno facendo vivere immersi in una terza guerra mondiale “a pezzi”, come la chiama papa Francesco, senz'altro ci stanno trasfigurando rendendoci tutti “più “arrabbiati”; ma ci possono trasfigurare anche positivamente, aiutandoci ad andare all'essenziale, ad assumere meno maschere e a essere più veri.
La “novità” del messaggio cristiano rispetto al modo puramente “umano” di affrontare la vita sta proprio nella presenza del Figlio di Dio in mezzo a noi e insieme con noi nel momento della prova e del silenzio. Gesù non ci lascia da soli, nel momento in cui dobbiamo salire su un alto monte, e nemmeno nel momento in cui veniamo avvolti dalla nube dell'incomprensibile: rimane con noi e ci mostra la fragilità della nostra esistenza e la luce gloriosa che accompagna i nostri successi. Entrare nella nube del mistero di Dio, come Pietro, Giacomo e Giovanni sull'alto monte fa parte del gioco della vita e del gioco della fede, senza il quale non possiamo comprendere il mistero di Dio perché il mistero di Dio non è solo angoscia e preoccupazione: è anche fascino allo stato puro. Come quando si cammina a luci spente nella notte e si rischia di cadere, ma si riesce anche a vedere meglio le stelle brillare in cielo oppure come può essere l'imminente parto di una giovane madre, che è motivo di angustia ma anche espressione di vita piena.
Anche questo, e non solo il dolore, ci trasfigura a immagine di Dio. Il segreto per vivere bene questa esperienza? Abitare il silenzio, perché è solo nel silenzio della nostra vita che può risuonare la voce di Dio: “Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!”.
Finché è il “comando centrale” che ti lascia solo, o perché non si preoccupa del tuo benessere e della tua salute, te la puoi anche prendere, ma alla fine ti rassegni, e se non lo accetti, quanto meno lo sopporti. Finché è il tuo gruppo di amici che ti lascia solo, o perché sei uno poco affabile, o perché sei ritenuto un po' sfortunato, te la puoi anche prendere, ma alla fine ti rassegni, e se non lo accetti, quanto meno lo sopporti. Finché sono i tuoi più stretti collaboratori che ti lasciano solo, o perché hanno problemi in casa e non hanno più tempo da dedicare agli interessi comuni, la puoi anche prendere, ci rimarrai anche male, e se non lo accetti, quanto meno lo sopporti. Finché sono i tuoi superiori che ti lasciano solo, perché hanno molte cose da pensare più urgenti o più drammatiche delle tue, ma alla fine ti rassegni, e se non lo accetti, quanto meno lo sopporti. Finché è la tua famiglia che ti lascia solo, perché l'altra vita li chiama a sé, o più semplicemente perché tu o loro avete fatto delle scelte di vita che non sono più compatibili ma alla fine ti rassegni, e se non lo accetti, quanto meno lo sopporti. Finché sei tu stesso a lasciarti da solo, quando il tuo corpo e la tua mente non reagiscono più ai tuoi stimoli e alle tue intenzioni, ma alla fine ti rassegni, e se non lo accetti, quanto meno lo sopporti.
Quando però non è la società, né gli amici, né la tua famiglia, né te stesso, né i tuoi collaboratori, né i tuoi superiori a lasciarti solo, ma è lo stesso Dio, in persona, allora le cose cambiano: te la prendi comunque, forse anche di più ti sentirai lacerare dento dalla sofferenza, soprattutto se credi in lui, ti sentirai quasi tradito ma non puoi rassegnarti, perché un Dio che abbandona i suoi figli è inaccettabile. Come sarebbe a dire che non solo ti molla lì nel deserto: ti butta dentro e lo fa con violenza, così come faceva quando con violenza cacciava i demoni dai posseduti o come cacciò i mercanti dal tempio. Altro che vita, nel deserto c'è solo morte, c'è solo fame e sete e tutto questo non solo tollerato e magari fossimo soli: ci ritroviamo lì con la peggiore delle compagnie, con satana che ci tenta, che tenta di farci ritornare indietro sapendo che non ce la possiamo fare, che tenta di farci capire che Dio non è poi proprio così padre e che cerca di farci cambiare idea sulla vita perché il suo scopo è di farci credere che nel deserto Dio non c'è, che ci ha piantato lì e si è dimenticato di noi, e quindi non possiamo che affidarci al potere tentatore delle sue proposte. Chi è con noi, quando Dio ci abbandona e ci sentiamo soli?
Per la verità, qualcuno al nostro servizio c'è anche nel deserto: gli angeli. Quando qualcuno con una parola dolce, con un gesto affettuoso, con una carezza, con una mano che stringe la nostra, con un semplice sguardo, si avvicina e ci fa capire che Dio non se n'è andato: ci ha buttato nel deserto per farci capire che neppure nella peggiore delle arsure lui ci lascia senz'acqua; che neppure nella peggiore della scarsità lui ci lascia senza cibo; che neppure nella peggiore delle solitudini lui ci lascia soli. Manda i suoi angeli, per servirci, e soprattutto per farci capire che lui c'è, anche nel deserto. Certo, non è facile né da capire né tantomeno da avvertire, la sua presenza nel deserto: ma non dobbiamo lasciarci sfuggire l'occasione per farlo, perché il tempo è scaduto, il Regno di Dio è vicino, occorre cambiare la nostra mentalità riguardo a un Dio che riteniamo assente e silenzioso, e iniziare a credere nel Vangelo.
La Quaresima ci dà una mano a ricreare quell'alleanza che Dio fece con Noè dopo il diluvio, e che noi siamo continuamente tentati di infrangere per via del nostro desiderio di indipendenza e di onnipotenza. Del resto, sia pur con tutte le grandi capacità scientifiche e con le grandi innovazioni che oggi ci vengono offerte da questa famigerata “intelligenza artificiale”, capace di riprodurre qualsiasi cosa, foss'anche un enorme arcobaleno in cielo, non dimentichiamoci che il primo “arco sulle nubi”, segno dell'alleanza ritrovata tra il cielo e la terra, non lo ha dipinto un algoritmo cioè un procedimento matematico, bensì - per dirla con il Sommo Poeta - “l'Amor che move il sole e l'altre stelle” che in questa Quaresima sarà il caso di andare a riscoprire.
Nelle letture di questa sesta domenica del tempo ordinario risuona più volte la parola lebbra. Al tempo di Gesù era una malattia spaventosa: il lebbroso rappresentava la persona emarginata; colpito da una malattia sentita non solo come ripugnante, ma anche come dovuta a una punizione divina per i peccati commessi, il lebbroso viveva una condizione disperata e vergognosa. Alle sofferenze fisiche si aggiungevano quelle connesse alla sua separazione dalla famiglia e dalla società poiché vi era la convinzione che questa fosse talmente contagiosa da infettare chiunque fosse venuto in contatto con il malato.
Marco scrive che «Venne da lui un lebbroso». Gesù non lo allontana, come imponeva la legge, ma accetta di incontrare una persona che tutti evitavano; una persona che era costretta a vivere in luoghi deserti e a svelare la propria condizione a chiunque stesse per avvicinarglisi. Gesù lo lascia avvicinare a sé, fino ad ascoltare ciò che vuole dirgli: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Alla vista di quest’uomo l’evangelista annota che Gesù «ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”». Egli, dunque, toccandolo, supera la legge, interpretandola con misericordia e in tal modo, purifica, guarisce, restituisce alla condizione di vita piena quel povero sventurato.
Davanti al lebbroso, la cui vita sta letteralmente cadendo a pezzi, il Signore non vuole che sia eliminato o distrutto, ma esprime il suo desiderio che egli sia purificato. Anche noi dovremmo entrare in questo desiderio e lavorare non per la distruzione degli altri, per quanto lebbrosi possano essere, ma affinché siano purificati e salvati, reintrodotti nei circuiti della vita.
Nelle parole e nelle intenzioni di Gesù il sacerdote non dovrebbe essere più quello che decreta l’impurità e l’esclusione, ma colui che certifica la guarigione e reinserisce nelle relazioni.
Gesù è la santità che brucia ogni nostro peccato, è la vita che guarisce le nostre infermità, è colui che «si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori».
Manda il lebbroso dal sacerdote perché confermi la sua guarigione. Era infatti indispensabile il suo giudizio per restituire piena dignità sociale a questo lebbroso ormai guarito. Gesù rispetta la legge e ne riconosce la validità, dimostra così di non essere venuto ad abolirla, ma a «darle compimento», cioè a realizzare quello che la legge prescriveva di fare.
Sa trarre il bene anche da questo comportamento disumano: proprio perché la gente ha paura ed emargina anche Lui, è costretto ad abitare in luoghi solitari.
Dio non si trova tra la folla, ma nel silenzio. Proprio per questo, coloro che abitano quei luoghi solitari: gli esclusi, gli emarginati, hanno l’opportunità di incontrarlo e di stare con lui.
Proprio loro che erano messi da parte, ora si ritrovano in una posizione di privilegio per incontrare Dio. Ed è così: se il mondo ti condanna, ti esclude, ti mette da parte, sarai nella condizione favorevole per poter incontrare Dio da vicino, perché lui abita quei luoghi, non altri.
Il racconto è caratterizzato da uno straordinario clima di normalità. I maghi e i guaritori illudono e ingannano le persone. Non è così per Gesù, Egli dirà al lebbroso guarito: «Guarda di non dire niente a nessuno». Chiede a quest’uomo di non raccontare la sua guarigione, non perché teme per la sua vita, ma semplicemente perché la conoscenza dell’identità di Gesù richiede un cammino.
Il racconto di un prodigio non è sufficiente. Ma è impossibile trattenere la potenza di quello che Dio fa in noi.