I Vangeli di queste domeniche, si pongono una grande domanda: come possiamo incontrare il Risorto? Giovanni racconta che Gesù apparve in mezzo ai suoi entrando a porte chiuse. I discepoli, nonostante la notizia sconvolgente della resurrezione, avevano paura perché il mandato di cattura era per tutto il gruppo. Ed è bello vedere che le porte chiuse non fermano il Signore, l’incredulità non arresta il desiderio di Dio di incontrarci e le nostre chiusure non fermano il Risorto perché il Suo amore è più forte delle nostre paure e l’abbandonato ritorna da coloro che sanno solo tradire. Immagino si aspettassero un rimprovero, in fondo lo avevano abbandonato, tradito ma Gesù non porta rancore: annuncia la pace e dona lo Spirito.

            Le prime parole del Risorto infatti sono un dono di felicità. Il termine ebraico “Shalom”, che noi traduciamo semplicisticamente con “Pace”, esprime tutto ciò che comporta la felicità. Non è un invito o un augurio, ma è un dono: la pace è qui, è in voi, è iniziata. Il Risorto dona tutto quello che concorre alla felicità dell’uomo “E disse loro: «Ricevete Spirito Santo”.

            Non è affatto semplice credere alla risurrezione e per questo abbiamo cinquanta giorni per riflettere e in questo cammino abbiamo un compagno di viaggio: l’apostolo Tommaso. Ci sentiamo vicini a lui in una fede dubbiosa dimenticando che il dubbio è il lubrificante della fede; ma soprattutto Tommaso non crede ai suoi amici semplicemente perché non erano credibili. Come poteva credere a coloro che erano scappati sotto la croce, che avevano lasciato il Maestro solo nel momento dell’angoscia; e come poteva credere a Pietro che lo aveva rinegato per ben tre volte!

            Tommaso, però, non abbandona il gruppo e dopo otto giorni è ancora la e fa bene perché il Risorto torna solo per lui e questo incontro avviene dentro la comunità riunita e mediocre che ha dovuto fare i conti anche con il tradimento. Ed è confortante sapere che l’incontro con il Risorto non avviene in una comunità ideale e perfetta, ma in quella in cui vivi, quella con la quale il Risorto ti ha chiamato a camminare.

            Gesù non concede a Tommaso apparizioni particolari, ma gli si presenta “Otto giorni dopo”, cioè quando la comunità si riunisce di nuovo nella celebrazione dell’Eucaristia e dice a Tommaso di mettere il suo dito nei fori delle mani e nel fianco, ma Tommaso si guarda bene dal farlo. Al contrario pronuncia la più alta professione di fede: «Mio Signore e mio Dio!». E poi ecco la nostra beatitudine: «Beati quelli che senza aver visto crederanno», cioè felici noi che, dopo duemila anni, cerchiamo di seguire il Maestro e siamo noi quelli di cui parla Gesù, noi che ogni otto giorni, dopo duemila anni, continuiamo a riunirci nel suo nome.

            Le nostre liturgie non ci devono parlare di Dio, ce lo devono far sentire, toccare, sperimentare e Giovanni conclude: “Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro”. Giovanni ci invita oggi, a scrivere il nostro libro, a scrivere il nostro vangelo.

 

don Franco Bartolino

Il giorno nuovo della Pasqua inonda di luce la nostra storia e la proietta nell’eternità. Insieme, come comunità di redenti, siamo testimoni della vittoria del Salvatore, che distrugge per sempre la morte e illumina il buio delle nostre notti.

La morte e il male di fronte a Lui soccombono: è questo che celebriamo nel giorno di Pasqua, una festa che dura 50 giorni, a dire la pienezza del dono della Vita che il Padre ha elargito agli albori della Creazione e ha rinnovato nella storia del popolo di Israele, nonostante le innumerevoli infedeltà.

Egli è fedele per sempre, ha compiuto per noi «una salvezza potente» «nella pienezza dei tempi» attraverso il Mistero del Figlio, incarnato, morto e risorto, e conferma nella storia, fino alla fine del mondo, la sua Salvezza per l’azione potente dello Spirito.

«Questo è il giorno che ha fatto il Signore», la Pasqua è il giorno senza tramonto, cui ciascuno di noi è chiamato perché Cristo è risorto dai morti! Con questo giorno nuovo, che non ha fine, «la nostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Lui, che è la nostra Vita, anche noi saremo manifestati con Lui nella Gloria».

 Non c’è spazio per la tristezza e la paura nel giorno in cui la Vita vince: gli angeli, come negli annunci del Natale, invitano le donne a «non temere; ciascuno in Cristo riposa, sicuro di essere vivo in Lui: chiunque crede in Lui, anche se muore vivrà. Questa è la fede della Chiesa, che si fonda sulla certezza della Risurrezione: un fatto dentro la storia, un evento che ha cambiato la storia.

Tutti si affrettano la mattina di Pasqua: le donne «lasciano in fretta il sepolcro con timore e gioia grande» e «corrono a dare l’annuncio ai discepoli»: esse per prime, nella corsa, incontrano Gesù; anche «Pietro e l’altro discepolo, quello che Gesù amava, corrono insieme», raggiunti e mossi dalla Parola salvifica del Padre, fattasi carne per la fede di una Donna e affidata fino alla fine della storia alla fede e alla testimonianza di ogni donna e di ogni uomo, fortificati sempre dalla fede di Pietro: è lui che entra nel sepolcro per primo, ed è per la fede di lui che anche l’altro discepolo «entra, vede e crede».

 Corriamo anche noi! Il Signore risorto rinnova i nostri passi e rafforza la nostra testimonianza. Egli ci invita a tornare «in Galilea», dove tutto è cominciato, e a rivivere la gioia che viene solo dal seguire Lui.

Tocca a noi adesso essere i destinatari e i portavoce non di un fatto storico, ma del nostro coinvolgimento, di cosa è successo nella nostra vita e quale esperienza di fede consegniamo a chi seguirà. 

Oggi è Pasqua. Se la celebriamo vuol dire che siamo nel posto giusto al momento giusto; ciò deve ricordarci che il cristiano è chiamato a vivere la Pasqua tutti i giorni. La resurrezione ci rende nuove creature, imprime slancio alla nostra capacità di amare.                 

 La resurrezione è fonte di gioia, va annunciata e vissuta: la strada da percorrere e i segni da lasciare, già li conosciamo, sono dentro di noi.

 

                                                                                               sr Annafranca Romano

«Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli» (Is 50,4).

Abbiamo aperto i nostri orecchi lungo questi quaranta giorni, passando dalle Cenere alla Settimana Santa. Il Signore stesso ci ha guidati attraverso incontri importanti, offrendoci la possibilità di un cammino con Lui per diventare uomini e donne nuovi, semi di una nuova umanità.

Entriamo ora nella Città Santa: il Cuore di un Dio che si spezza d’amore. Entriamo non più nel Tempio dei sacrifici ma nel Tempo della Grande Liturgia nella quale il Signore, offrendo Se stesso ha reso sacro, santo ogni tempo, ogni luogo dove si pronuncia e annuncia il Suo nome, ogni cuore che lo accoglie nella fede e nell’amore. Matteo ci ricorda che anche per il nostro tempo si compie la profezia di Malachia: «Ora questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Dite alla figlia di Sion: "Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un'asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma"» (Mt 21,4-5).

Dall’inizio alla fine della sua vita il Signore si è mostrato così: povero, umile, semplice, trasparente, indifeso… perché è esattamente questa l’identità di Dio e l’immagine nella quale siamo stati creati, per questo Gesù non ha preso in considerazione la Sua uguaglianza con Dio (cfr. Fil 2,6-11), accettando di riscattarci dalla trappola del potere, dell’orgoglio e dell’egoismo, facendosi Lui stesso Cammino di ritorno al Cuore del Padre, nostra Vita e Verità.

Seguiamo dunque Gesù, che entra deciso all’incontro della morte per trarre per tutti, la vita. Alziamo non più rami di ulivo o di palme, ma il palmo delle nostre mani con i frutti delle nostre opere di bene, di perdono e riconciliazione, del nostro impegno per la pace e del nostro amore sostenuto dalla fede e dalla speranza. Eleviamo il nostro inno di ringraziamento e di lode a Colui che ci dona la pace e salva la vita senza uccidere nessuno, ma offrendo se stesso, e impariamo da Lui a fare lo stesso mettendoci nel mondo come servi dell’Umanità.

«I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: condussero l'asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. La folla, numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla strada. La folla che lo precedeva e quella che lo seguiva, gridava: «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!».
Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è costui?». E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di Galilea
» (Mt 21, 6-11)

Questa settimana sarà decisiva anche per noi se riusciremo a fare tesoro delle sue Parole, se imprimeremo nella mente e nel cuore i suoi insegnamenti fati di esempi concreti, di silenzio e umiltà. Corriamo dunque, come i discepoli, a preparare la stanza del nostro cuore e della nostra casa, per farla diventare cenacolo della presenza eucaristica del Signore e vivere in continua azione di grazia al Suo amore fattosi Pane caldo, Cibo gustoso, Vino Buono, Mensa fraterna con sapore di Vita Eterna.

 

                                                                                                                         suor Maria Aparecida Da Silva

Troviamo oggi una delle pagine più inquietanti del Vangelo, la pagina conclusiva prima dell'arresto di Gesù, secondo il racconto di Giovanni. Come in un sapiente montaggio, l'evangelista fa coincidere l'apice della tensione che si è venuta a creare intorno a Gesù, con la tragedia della morte improvvisa di Lazzaro, uno dei migliori amici del Nazareno. A Betania, a casa dei suoi tre amici, Lazzaro, Marta e Maria, Gesù si rifugiava spesso quando, col cuore gonfio di tensione e d'incomprensione, lasciava la Gerusalemme che uccide i Profeti per trovare un angolo di serenità.  

            Betania svela così il volto di un Dio che sente il bisogno di essere amato e che si disseta della fede della Samaritana, cercatrice di Dio. Betania è l'icona dell'amicizia tra Dio e l'uomo ed è il segno di un approccio diverso e proprio su Betania, si abbatte la tragedia: Lazzaro di ammala gravemente. Qualcuno si prende la briga di avvisare Gesù e di dirgli: "Il tuo amico è malato". Egli ora lo sa, ma non fa nulla, e Lazzaro muore. Che mistero l'apparente silenzio di Dio.

            Il tumulto è grande, c'è molta gente intorno alle nostre amiche, conosciute e stimate e sapendo che arriva il Maestro, finalmente, Marta prima e poi Maria, escono di casa e gli vanno incontro: cercano una Parola, un gesto, uno sguardo. Lazzaro è morto e Gesù era lontano.

            Le sorelle non disperano, non urlano, non inveiscono, né piegano la testa in una rassegnata disperazione, attendono, fiduciose. Il loro amato fratello è morto ma ora l'amico è qui e Dio viene accompagnato a vedere quanta disperazione suscita la morte e qui l'inaudito accade.

            Gesù prima si commuove, poi scoppia in lacrime. Dio piange e questo pianto singhiozzante rompe gli argini, frantuma i pregiudizi, ci rivela il volto del Dio di Gesù Cristo, il vero volto di Dio.

            È un volto di Dio completamente nuovo quello che ci appare, così lontano dai nostri tiepidi dubbi, così diverso dalla nostra fede scadente. Davanti a questo dolore inatteso, Gesù prende una decisione: darà la sua vita perché Lazzaro torni alle sue amate sorelle. 

            Anche a noi, suoi amici, Gesù grida: "venite fuori!". Venite fuori dalla vostra tomba, dalle vostre tenebre, dalle vostre piccole sicurezze, venite fuori dai vostri pregiudizi, dai vostri schemi, dai vostri egoismi.

                                                                                                             don Franco Bartolino

 

Il protagonista di questa Domenica Quarta di Quaresima, è l'ultimo della città, un mendicante cieco, uno che non ha nulla da dare a nessuno e Gesù si ferma per lui perché il primo sguardo di Gesù si posa sempre sulla sofferenza.

 Lo sguardo di Gesù raccolto dai Vangeli è di una portata straordinaria. Infatti il suo sguardo vedeva sempre oltre, perché l'amore vede sempre oltre: guarda Matteo e non vede un ladro, bensì un uomo bisognoso di fiducia. Nella casa di Giàiro, il capo della sinagoga di Cafarnao, tutti vedono una bambina morta, Gesù vede solo una bambina addormentata. Nella donna adultera tutti vedono una peccatrice meritevole di morte, Gesù vede una donna bisognosa di libertà e di amore. Davanti alla tomba di Lazzaro, Gesù vede già l'amico resuscitato ed è bello carissimi sapere che anche noi siamo visti così. È una nuova creazione quella che compie Gesù con quel gesto: è il cielo di Dio che ancora una volta si impasta con questa terra che siamo noi. La creazione non è avvenuta una volta per tutte ma continua, e la creazione di me stesso avanza; ciechi come siamo, mendicanti d'amore, plasma la nostra vita. La cosa straordinaria è che il gesto di Gesù non guarisce il non vedente all'istante! L'opera di Gesù non è magia ma richiede la partecipazione attiva e se questi non avesse accettato di correre alla piscina di Siloe per lavarsi, sarebbe stato solo un non vedente con gli occhi pieni di fango. 

Una volta che il non vedente è guarito iniziano i guai. Inizia un feroce dibattito: chi lo ha guarito e perché di sabato? All'istituzione religiosa non interessa il bene, per questi ultimi l'unico criterio di giudizio è l'osservanza della legge. C'è un'infinita tristezza in tutto questo poiché per difendere la dottrina negano l'evidenza.

 L'ex non vedente prima descrive Gesù come un uomo, poi come un profeta, poi lo proclama Figlio di Dio. La fede è una progressiva illuminazione, passo dopo passo, ci mettiamo degli anni per riuscire a proclamare che Gesù è il Signore. Si dice che la fede è cieca e non è affatto vero. La fede è vedere, aprire gli occhi su questo mondo. Se non abbiamo nulla da raccontare, se viviamo una fede imbavagliata significa che non abbiamo incontrato Gesù.

           

 

Su di noi

Nel nostro nome "Piccole Missionarie Eucaristiche" è sintetizzato il dono di Dio alla Congregazione. Piccole perchè tutto l'insegnamento di Madre Ilia sarà sempre un invito di umiltà, alla minorità come condizione privilegiata per ascoltare Dio e gli uomini.
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