Nelle letture di questa sesta domenica del tempo ordinario risuona più volte la parola lebbra. Al tempo di Gesù era una malattia spaventosa: il lebbroso rappresentava la persona emarginata; colpito da una malattia sentita non solo come ripugnante, ma anche come dovuta a una punizione divina per i peccati commessi, il lebbroso viveva una condizione disperata e vergognosa. Alle sofferenze fisiche si aggiungevano quelle connesse alla sua separazione dalla famiglia e dalla società poiché vi era la convinzione che questa fosse talmente contagiosa da infettare chiunque fosse venuto in contatto con il malato.

 Marco scrive che «Venne da lui un lebbroso». Gesù non lo allontana, come imponeva la legge, ma accetta di incontrare una persona che tutti evitavano; una persona che era costretta a vivere in luoghi deserti e a svelare la propria condizione a chiunque stesse per avvicinarglisi. Gesù lo lascia avvicinare a sé, fino ad ascoltare ciò che vuole dirgli: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Alla vista di quest’uomo l’evangelista annota che Gesù «ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”». Egli, dunque, toccandolo, supera la legge, interpretandola con misericordia e in tal modo, purifica, guarisce, restituisce alla condizione di vita piena quel povero sventurato.

 Davanti al lebbroso, la cui vita sta letteralmente cadendo a pezzi, il Signore non vuole che sia eliminato o distrutto, ma esprime il suo desiderio che egli sia purificato. Anche noi dovremmo entrare in questo desiderio e lavorare non per la distruzione degli altri, per quanto lebbrosi possano essere, ma affinché siano purificati e salvati, reintrodotti nei circuiti della vita.

Nelle parole e nelle intenzioni di Gesù il sacerdote non dovrebbe essere più quello che decreta l’impurità e l’esclusione, ma colui che certifica la guarigione e reinserisce nelle relazioni.

Gesù è la santità che brucia ogni nostro peccato, è la vita che guarisce le nostre infermità, è colui che «si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori».

 Manda il lebbroso dal sacerdote perché confermi la sua guarigione. Era infatti indispensabile il suo giudizio per restituire piena dignità sociale a questo lebbroso ormai guarito. Gesù rispetta la legge e ne riconosce la validità, dimostra così di non essere venuto ad abolirla, ma a «darle compimento», cioè a realizzare quello che la legge prescriveva di fare.

 Sa trarre il bene anche da questo comportamento disumano: proprio perché la gente ha paura ed emargina anche Lui, è costretto ad abitare in luoghi solitari.

Dio non si trova tra la folla, ma nel silenzio. Proprio per questo, coloro che abitano quei luoghi solitari: gli esclusi, gli emarginati, hanno l’opportunità di incontrarlo e di stare con lui.

Proprio loro che erano messi da parte, ora si ritrovano in una posizione di privilegio per incontrare Dio. Ed è così: se il mondo ti condanna, ti esclude, ti mette da parte, sarai nella condizione favorevole per poter incontrare Dio da vicino, perché lui abita quei luoghi, non altri.

Il racconto è caratterizzato da uno straordinario clima di normalità. I maghi e i guaritori illudono e ingannano le persone. Non è così per Gesù, Egli dirà al lebbroso guarito: «Guarda di non dire niente a nessuno». Chiede a quest’uomo di non raccontare la sua guarigione, non perché teme per la sua vita, ma semplicemente perché la conoscenza dell’identità di Gesù richiede un cammino.

 Il racconto di un prodigio non è sufficiente. Ma è impossibile trattenere la potenza di quello che Dio fa in noi.

                                                                                                          sr Annafranca Romano

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