La prima lettura di oggi ci parla di due uomini di nome Eldad e Medad che invece di ritrovarsi insieme agli altri per ricevere l'autorizzazione a profetizzare, non giunsero in tempo alla tenda del convegno e restarono all'interno dell'accampamento continuando a profetizzare, cosa che suscitò la gelosia di Giosuè il quale non poteva tollerare iniziative personali che non passassero sotto il controllo suo e del suo padrone.

            E la gelosia fu il medesimo fattore che provocò la reazione dell'apostolo Giovanni, che voleva impedire a un tale di compiere un esorcismo nel nome di Gesù perché non era del gruppo dei discepoli del Maestro. La saggezza di Mosè e l'insegnamento di Gesù hanno un aspetto in comune: nessuno può pretendere di avere l'esclusiva su Dio.

            Gesù va al nocciolo della questione, affrontata sul piano comunitario, perché sa bene quanta fatica deve affrontare per far comprendere ai suoi il significato dell'essere suoi discepoli e il significato è sempre e solo uno, quello che da varie domeniche Gesù cerca di inculcare nella mente dei suoi e di noi tutti che essere cristiani non è un privilegio, ma un impegno; non è un prestigio, ma un servizio e questo lo si capisce nella misura in cui si accetta che Gesù è il Messia venuto non per comandare, ma per servire; non per condannare, ma per salvare; non per escludere, ma per riunire tutta l'umanità in un unico abbraccio.

            La logica del dominio e del prestigio non solo crea fratture all'interno di una comunità, ma allontana dal messaggio di Gesù i più deboli, quelli che per i più svariati motivi fanno già tanta fatica a credere e, in più, vengono scandalizzati da questi atteggiamenti di gelosia e di esclusività molto presenti nella vita delle nostre comunità. Di fronte ad atteggiamenti di questo tipo, la risposta di Gesù è dura: occorre estirpare dalla comunità questo modo di fare perché chi assume questi atteggiamenti è già privo di vita dentro di sé, rimane sepolto nel mare dei suoi atteggiamenti, come un corpo gettato in mare con una pietra al collo, come una mano o un piede tagliati che non possono ricrescere, come un occhio cavato che non può più vedere.

            Le immagini del Vangelo di oggi sono davvero forti, ma in una domenica come questa e in un periodo come questo, nel quale molte comunità cercano di ripartire dopo un lungo periodo di stallo, sono immagini che ci fanno riflettere e ci chiamano a una profonda conversione pastorale. Quella “conversione pastorale” a cui papa Francesco ci richiama continuamente e sulla quale c'è davvero ancora tantissima strada da fare a partire dalle nostre comunità, a partire dai pesanti atteggiamenti intolleranti che mettiamo in atto ogni giorno; a partire da quel “si fa così perché abbiamo sempre fatto così” che impedisce ogni tentativo di rinnovamento; a partire da quel “l'ho sempre fatto io, non vedo perché debba farlo qualcun altro”; a partire da quel “è una vita che siamo in questa comunità e ne abbiamo visti di tentativi falliti” che è l'affossamento definitivo di ogni speranza di cambiamento.

            E potremmo continuare per ore a citare situazioni che, invece di creare entusiasmo intorno al Vangelo, scandalizzano chi, nella comunità dei credenti, cerca la freschezza del messaggio cristiano e trova l'appiattimento totale su posizioni assodate e rigide che con la novità del Vangelo hanno ben poco a che vedere. Ora che tutti stiamo programmando le varie attività dell'anno, mettiamo come primo impegno quello della conversione pastorale, quel cambio di mentalità che permetta a tutti di sentire che in una comunità nessuno ha l'esclusiva della fede.

                                                                               don Franco Bartolino

 

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