Non a caso il protagonista del testo del Vangelo di Marco che la liturgia odierna ci propone, non ha un nome, viene indicato semplicemente con un pronome indefinito: è un tale. Come dirà lui stesso a Gesù, ha vissuto di traguardi: ha fatto tutto quello che si doveva fare, ha ascoltato le richieste degli altri, ha portato a termine i compiti che gli erano stati assegnati. Sono certamente tutte cose buone, ma scopre drammaticamente che tutto questo non lo ha reso felice.
L’unico linguaggio che ha imparato nella sua vita è quello del merito e del dovere: per lui la vita eterna è un diritto, un’eredità, qualcosa che mi spetta o che posso conquistare. Si rivolge a Gesù chiamandolo maestro. Gesù è l’ennesimo consigliere che dovrebbe assegnargli un nuovo compito da portare a termine. Gesù infatti lo invita a riflettere sul perché lo chiami buono, se buono è solo Dio: il problema è che per quest’uomo il dovere ha preso il posto di Dio. Non riesce a capire che quello che salva è la relazione, non il merito.
Davanti a tutta questa ostentazione dell’esteriorità e a questa esaltazione del fare e del dovere, Gesù semplicemente lo guarda dentro, quindi esattamente nella direzione opposta a quella indicata da quest’uomo. E dentro quest’uomo, Gesù vede probabilmente tanta fragilità, ma anche tanta bellezza, di cui forse lui stesso non si è accorto. Gesù lo ama a prescindere, lo ama prima che quest’uomo abbia accettato o meno la sua proposta. Questa successione degli eventi è fondamentale: Gesù mi ama perché vede quello che c’è dentro di me, vede la verità di me stesso. L’amore che Gesù ha per me non è il premio per quello che ho fatto.
Dentro quest’uomo, Gesù vede quello che realmente gli manca: egli desidera essere amato. E Gesù gli propone di cambiare modo di pensare: non si tratta di comprare una nuova ricetta, ma di vendere anche quelle che finora mi hanno distrutto la vita; non si tratta di avere un nuovo traguardo da raggiungere, ma di dare via anche quelli che finora mi hanno fatto vivere nell’ansia e nella frustrazione; non si tratta di pensare a cosa devo fare io, ma di seguire un altro, cioè di costruire una relazione, uscendo dal ripiegamento su se stesso.
Non è facile. E infatti quest’uomo preferisce non decidere, ma tornare nell’anonimato, rimane un tale. Perché solo in una relazione facciamo l’esperienza di essere chiamati per nome, di essere riconosciuti. Fino a quando resteremo da soli, non sentiremo mai pronunciare il nostro nome! Se ne va triste, perché una vita anonima, in cui non si decide mai, è una vita triste.
Anche i discepoli però sono sconcertati per quello che Gesù sta proponendo come via verso la felicità. È come se le parole di Gesù avessero improvvisamente fatto luce nella loro vita. Anche loro, che hanno seguito Gesù fino a quel momento, si rendono conto che in realtà non hanno mai lasciato le loro ricchezze. È proprio così: possiamo anche aver seguito il Signore, ma non aver tagliato con i nostri legami precedenti e la sequela diventa faticosa.
Per questo Gesù propone anche ai discepoli di lasciare, perché è l’unica via che ci fa rendere conto di quanto solo Dio possa essere il fondamento della nostra vita. Solo se tagliamo le nostre inutili zavorre, possiamo prendere il volo. Solo liberandoci dalle ansie di prestazione, possiamo cominciare fin d’ora a essere felici.
sr Annafranca Romano
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