Se c'è gente che fa fatica ad associarsi agli Apostoli - come abbiamo ascoltato nella Prima lettura - perché dubita a riguardo della loro dottrina, tra gli stessi Undici c'è già chi sceglie di non associarsi agli altri e Tommaso è uno di questi.

            Ho sempre nutrito una particolare simpatia per questo discepolo, additato dalla tradizione come il miscredente, l'uomo di poca fede, il simbolo di un ateismo scientifico che vuole mettere alla prova l'esistenza di Dio: in realtà, non è così. Tommaso è un uomo che, come gli altri dieci, non si dà pace per la morte del Signore, ma dimostra di avere un carattere forte, e reagisce diversamente dagli altri cercando da subito di tornare alla vita di prima. È un uomo pieno di vita e di coraggio, uno che non si chiude dentro il Cenacolo come gli altri, uno che non chiude - come gli altri - le porte di casa per paura dei Giudei.

            Tuttavia, Tommaso scappa dal confronto con il Risorto. Per lui è tutto finito, e non c'è speranza che qualcosa ricominci: è stata troppo cruenta quella morte per sperare che la vita possa riprendere. E allora fa il duro, fa quello che preferisce non credere agli annunci degli altri, quello che pone condizioni alla fede. In fondo, il problema che lo assilla è la sua chiusura, la sua solitudine, che sfocia poi nella decisione di dissociarsi dagli altri per credere in Gesù “a modo suo”: se non vedo io i segni della resurrezione non credo.

            Ma il Risorto si incontra e si riconosce solo nella comunità, nella Chiesa radunata in assemblea “otto giorni dopo” - come dice il Vangelo - e “nel giorno del Signore”, come viene rivelato allo stesso Giovanni nel brano di Apocalisse della seconda lettura non puoi, cioè, avere la pretesa di mettere alla prova Dio da solo. O accetti che la vita di fede è fatta di un cammino comunitario, con tutte le sue angosce, le sue chiusure e le sue paure, o Dio non lo potrai mai incontrare, nemmeno attraverso le più accurate ricerche e prove scientifiche o le più eloquenti disquisizioni teologiche.

            È questione di fede, la Resurrezione: e Gesù Cristo non ha paura di sfidare l'uomo su questo. È lui stesso che, otto giorni dopo, va a “punzecchiare” Tommaso sfidandolo: “Tendi la tua mano e mettila nel mio fianco. E non essere incredulo, ma credente!”.

            Il grido di Tommaso è una delle più belle espressioni di fede del Vangelo: “Mio Signore e mio Dio!”. Il Risorto è veramente “mio Dio”, perché è onnipotente, anche sulla morte, ed è “mio Signore”, cioè Colui che regna sulla storia, sulla mia storia e su quella dell'umanità, per sempre.

            Non possiamo avere la pretesa di sfidare Dio sulla sua Divinità né sulla sua Signoria nella storia: solo, occorre fare una professione di fede, anche quando dentro di noi vorremmo avere certezze e prove, che Dio ci offre solo se accettiamo un cammino all'interno della Chiesa. Tommaso voleva un Dio solo per sé, a sua misura, basato sulla sua fede. Gesù vuole invece che Tommaso faccia un cammino di fede nella Chiesa: al di fuori di essa, il Risorto non si rivela.

            La vicenda di Tommaso è uno stimolo e una provocazione per noi come Chiesa: se non stiamo insieme, come facevano i primi discepoli, nel vivere la gioia e la fede nel Cristo Risorto, il Signore non può essere in mezzo a noi. Una fede personale, esclusiva, su misura, magari tirata in ballo solo quando ne sentiamo il bisogno, può anche essere intensa e incrollabile: ma non serve a nulla e a nessuno, e soprattutto non può dirsi cristiana.

            Dove invece c'è concordia, spirito di preghiera, amore e solidarietà, il Signore viene, sta in mezzo a noi sia pur a porte chiuse, e ci consegna i suoi doni più grandi: il perdono e la pace.

                                                                                       don Franco Bartolino

 

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