Non è proprio così vero che l'esatta posizione delle parole, in una frase, sia qualcosa di poco conto. A volte - come avviene in matematica - si possono invertire i termini, e il significato non cambia, ma il brano di Vangelo di oggi ci dimostra il contrario.

            La gente, di fronte alla guarigione dell'indemoniato nella sinagoga di Cafarnao, esclamava presa da timore e meraviglia: “Che è mai questo? Un insegnamento nuovo!”. Si badi bene: “un insegnamento nuovo” che non è la stessa cosa che dire “un nuovo insegnamento”. Se avessero detto “un nuovo insegnamento”, quello che Gesù insegnava nella sinagoga non sarebbe stato altro che uno dei tanti insegnamenti degli scribi. All'inizio del brano, invece, Marco dice che la gente era stupita dell'insegnamento di Gesù, perché parlava come uno “che ha autorità, non come gli scribi” e già qui la cosa sembra strana, perché in realtà all'interno della sinagoga l'autorità più importante era lo scriba; era lo scriba che interpretava la Parola di Dio, e l'autorità allo scriba, era data dalla comunità che lo eleggeva; di Gesù, invece, la gente dice che “ha autorità”, che non ha bisogno che gli venga data, perché gli è propria.

            Ecco, il “segreto” di Gesù sta proprio in questo: che è autorevole per ciò che dice e in ciò che fa e “non come gli scribi” perché “dicono e non fanno”, perché sono bravi a interpretare la Parola di Dio a loro gusto ma non sono poi capaci di dimostrare ciò che predicano con l'esempio dei loro comportamenti; ecco perché l'insegnamento di Gesù non è un “nuovo insegnamento”, ma un “insegnamento nuovo”, ovvero qualcosa di diverso, di stravolgente, di rivoluzionario.

            Lo stupore della gente è provocato dal fatto che Gesù ha appena cacciato un demonio da una persona posseduta che aveva avuto la pretesa di rivelare a tutti chi fosse. Gli scribi e le autorità religiose non accetteranno questa cosa, perché di fronte all'ennesimo esorcismo, diranno che Gesù faceva questo in quanto “capo dei demoni”: ma questo risponde alla logica del modo “vecchio” di vedere le cose. L'insegnamento “nuovo”, invece, è quello di Gesù, al quale obbediscono anche chi - come satana - è suo nemico.

            La novità di Gesù è proprio questa: la gente lo ascolta e lo segue perché conquistata dalla sua coerenza e dalla potenza della sua parola, che se è capace di conquistare a sé “persino gli spiriti impuri”, a maggior ragione è capace di conquistare gli spiriti puri, quelli che, alla fine, nella loro semplicità, sono i primi destinatari del Vangelo.

            La novità di Gesù, allora, non sta nell'adesione alle sicurezze della Legge e dei precetti insegnati dagli scribi, cose che si dimostrano vecchie e obsolete. La novità di Gesù è data dall'adesione al suo messaggio che è nuovo cioè capace di conquistare anche le anime più lontane e refrattarie. Un messaggio che si apre alla novità di un modo nuovo di sottomettersi a Dio: non più all'autorità dei suoi precetti, ma al potere del suo amore, capace di conquistare anche gli animi a lui più avversi.

            Un insegnamento semplice, che non mi stancherò mai di ripetere: l'attaccamento alla tradizione e al fare le cose che si sono sempre fatte, nello stesso modo di sempre crea solamente sottomissione, chiude la mente e il cuore e ci impedisce di incontrare la novità del Vangelo che forse sconvolge creando anche un po' di timore, ma di certo ti permette di fare un'esperienza di Dio più vera, perché non ti sottomette a lui sulla scorta di precetti da osservare senza fiatare, ma ti avvicina a lui attraverso la forza dell'unico precetto che il Vangelo ci insegna, quello dell'amore che non può mai essere basato sul “con te Gesù mi sento al sicuro perché io e te abbiamo sempre fatto così”, ma sul “con te Gesù mi sento libero perché mi ami”.

                                                                                        don Franco Bartolino

 

Devo confessare che amo profondamente il libro di Giona. Mi piace perché è attuale, realista, e forse anche perché in questo profeta un po' mi ci ritrovo: testardo, incapace di cambiare mentalità, pronto spesso ad attendere il castigo di Dio su chi si comporta male, ma senza mai porsi la domanda su come lui si comporta con Dio. La domanda che conta, a Giona la fa Dio stesso, al termine di questo libretto di quattro capitoli: una domanda che non trova risposta nel libro stesso, perché è difficile rispondere in maniera immediata a un Dio che ti chiede “Mi permetti o no di essere misericordioso? Mi permetti o no, di perdonare tutti?”.

            Quanta verità in questo interrogativo, anche rispetto al nostro modo di vivere il rapporto con Dio. Con lui, infatti, ce la prendiamo spesso non solo perché vediamo il male nel mondo e diamo a lui la colpa di non fare nulla per eliminarlo, ma anche perché quando, in suo nome, arriviamo a denunciare apertamente le malvagità del mondo, le ingiustizie sociali e i peggiori dei drammi che affliggono l'umanità, e ci mettiamo in attesa dei suoi meritati castighi, ci ritroviamo a fare i conti con un Dio a dir poco “incoerente”, che si impietosisce, si ravvede dalle sue intenzioni, ed evita di compiere giusti castighi, in nome della sua misericordia!

            Lo stesso che capitò a Giona, il quale tra l'altro sapeva già come era solito comportarsi Dio, per cui fa di tutto perché l'invito che Dio gli rivolge: “Alzati e va' a Ninive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico” cada nel nulla. Il primo tentativo di Dio con Giona va a vuoto, perché il suo “profeta”, invece di andare a Ninive, si imbarca per una nave che va a Tarsis, in direzione completamente opposta. Poi, però, dopo la famigerata esperienza nel ventre del grosso pesce, Dio lo rimanda una seconda volta, e gli dice di annunciare ciò che egli stesso gli dirà: a quanto pare, però, Giona si prende la libertà di annunciare agli abitanti di Ninive quello che ha in testa lui, ovvero il castigo di Dio e la distruzione della città. Ma Dio sa bene che, se c'è qualcosa da distruggere, questa è proprio la testa di Giona, il suo modo di riflettere e di ragionare, che non ammette sconti di fronte a un castigo annunciato, che non permette, in definitiva, a Dio di fare ciò che egli sa fare meglio di ogni cosa, ovvero perdonare.

            Anche noi vorremmo, come Giona, recarci in quella “grande città”, in quella “Ninive” che è il mondo, talmente globalizzato nel compiere il male da non capire più se esista un luogo sicuro rispetto a un altro e annunciare che il male che vediamo è talmente grande da aver spinto Dio a voler distruggere tutto in maniera definitiva. Che soddisfazione sarebbe vedere alcune situazioni drammatiche della vita umana venire completamente annientati da Dio! Che bello, vedere che Dio interviene e stermina in un colpo solo tutti i delinquenti, tutti i signori della guerra, facendo così vivere a tutto il mondo un'era di fraternità e di pace!

            E invece, la vicenda di Giona ci mostra che quella grande città che è il mondo non è poi così depravata come sembra, che il mondo non è poi così malvagio come appare. Anche a Ninive, Dio ha un popolo numeroso che lo ascolta e che di fronte al suo invito alla conversione mette in atto un cambiamento globale e questo, per sottolineare che, quando Dio tocca il cuore degli uomini, tutti quanti possono arrivare a comprendere che la sua misericordia è grande.

            Tutti, tranne Giona il quale, anche dopo la conversione degli abitanti di Ninive, si mette a guardare la città dall'alto di una collina, in attesa che venga distrutta. Se però anche noi, come lui, annunciamo un castigo, ovvero invochiamo un altro male come antidoto per sconfiggere il male, non faremo altro che aumentare la violenza. Rispondere al male con il male non fa che generare altro male, e questo è sotto gli occhi di tutti, attraverso le notizie che ogni giorno ci arrivano dagli scenari di guerra: gettare bombe in risposte ad altre bombe provocherà il lancio di nuove bombe. Se invece riconosciamo che c'è del bene nel cuore di ogni uomo, anche del più delinquente, allora il bene è vincente, ed è talmente forte che riesce a fare “ravvedere Dio” - dice ancora il libro di Giona - al punto che Dio “non fece più il male che aveva minacciato di fare”.

            Quindi, significa che Dio dà spazio al male e permette al male di fare tutto ciò che vuole? Nemmeno per sogno: Dio è il sommo Bene, e non può che volere il bene, e sa perfettamente che ci sarà sempre e comunque una fine dei tempi in cui i mietitori raccoglieranno il grano e la zizzania e li divideranno. Nel frattempo, però, il mondo non è affatto da buttare o da distruggere, anzi: il mondo ha molte cose buone che vanno annunciate e rese evidenti perché sono più forti del male, a patto, però, che anche noi cambiamo il modo di guardare al mondo e alle cose brutte che contiene.

            È un cambiamento radicale, perché occorre passare dalla logica di Giona alla logica del Vangelo, dalla logica della distruzione alla logica della costruzione, dalla logica del “gettare le bombe” alla logica del “gettare le reti”, dalla logica della minaccia e della scomunica alla logica del dialogo e della buona notizia. Non più un messaggio dal tono: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”, ma un messaggio che riempia di speranza: “Il tempo è compiuto, e il regno di Dio si è avvicinato: convertitevi e credete nel Vangelo”, ovvero, credete che un mondo diverso è possibile, perché il regno di Dio è vicino, Dio ci è prossimo ed è qui accanto a noi. Ed è un Dio che anche in mezzo alla città malvagia ci parla di buone notizie, ed è più credibile di un Dio che uccide, castiga e conquista, come spesso l'umanità continua a fare, convinta che la soluzione sia la guerra a oltranza contro il nemico, fino ad annientarlo. Dio fa molto di più che annientare il male: Dio cerca il bene che esiste da sempre nell'umanità, e la convince ad avere fiducia in sé stessa, perché il male è certamente più debole del bene.

            Le reti del bene sono state gettate da Dio nel mare dell'umanità: ora sta a noi seguirlo ed essere, con lui, “pescatori di uomini”.

                                                                                                                                      don Franco Bartolino

La liturgia della Parola di questa seconda domenica del tempo ordinario ha come tema la chiamata al discepolato. Nel Vangelo di Giovanni la prima parola di Gesù è una domanda: “Che cercate?”

 I due primi discepoli rispondono in modo molto semplice: non stanno cercando una risposta teorica, una verità, una formula teologica, ma una relazione. Il loro desiderio esprime una ricerca di familiarità: “dove abiti”? Il luogo in cui abitiamo parla di noi. Per diventare veramente familiari con qualcuno occorre entrare nella sua casa. Non si può mai essere veramente amici senza mai aver abitato la casa dell’altro.

Gesù accoglie questo desiderio di familiarità e li invita nella sua casa. Per conoscere Gesù non è solo parlare di lui, quanto di stare e conversare con lui. Molti pensano di conoscere il Signore o di averlo incontrato semplicemente perché hanno letto di lui. La Parola si compie quando facciamo esperienza di Dio.

Eppure, benché i due discepoli ricordino con precisione l’ora in cui è avvenuto quell’incontro: erano circa le quattro del pomeriggio, non descrivono il luogo in cui Gesù abita. Forse è un modo per dirci che non c’è un luogo esclusivo in cui si può incontrare Gesù, ma ci sono tante esperienze, tanti modi, in cui Dio si lascia trovare. Nessuno ha l’esclusiva, nessun movimento, nessuna spiritualità, nessun gruppo! È il Signore che si lascia trovare dove vuole.

 Quando cerchiamo qualcosa è perché abbiamo riconosciuto che ci manca, anche se a volte non sappiamo neanche bene cosa stiamo cercando, forse non sappiamo neanche se sia la cosa migliore per noi, ma nessun cammino può iniziare eludendo questa domanda. La Parola di Dio ci invita a metterci davanti a questo interrogativo: cosa sto cercando oggi nella mia vita?

 La risposta di Gesù rappresenta una sfida: Venite e vedrete. Non svela il segreto, non dice parole inutili, li invita a stare con Lui.

Ecco la fede nel suo nucleo essenziale. Nella nostra vita c’è sempre un incontro decisivo, una via di Damasco. Ma non basta, quella luce che Dio accende all’improvviso può essere soffocata dalla pigrizia o dalla superficialità, può essere spenta dalle nostre paure.

 È necessario fare della vita un continuo incontro con Gesù. Sappiamo dove e come trovarlo. Due sono i canali ordinari: la celebrazione eucaristica e la carità.

 In ogni Eucaristia Gesù è presente e ci unisce a Lui come ha promesso: chi mangia la mia carne rimane in me e io in lui”. Ma è presente anche nei più poveri, in quelli che nessuno vede: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Ogni gesto di autentica carità ci fa entrare in relazione con Lui. 

Quel giorno rimasero con lui”: se vogliamo, anche noi possiamo restare sempre con Gesù. La fede non alimenta il desiderio di vivere grandi emozioni, ma dona l’intima certezza di vivere ogni appuntamento della vita in compagnia di Dio.

L’incontro con Gesù, quando è autentico, genera il desiderio ulteriore dell’annuncio. I primi discepoli raccontano quello che hanno vissuto. Il Vangelo cammina attraverso le relazioni e le guarisce. Se questa guarigione non avviene, occorre chiederci se abbiamo veramente incontrato il Signore. Andrea inizia la sua evangelizzazione proprio permettendo al fratello Simone di essere incontrato da Gesù.

                                                                                                                                              sr Annafranca Romano

Parlare della famiglia dal pulpito oggi, per noi preti, è divenuta una cosa complicatissima. Se difendi il modello tradizionale di famiglia basato sul matrimonio tra un uomo e una donna, aperto alla procreazione, passi per essere un tradizionalista, incapace di leggere le trasformazioni e le nuove situazioni a livello sociale e culturale, se non addirittura per un omofobo e anche un po' razzista. Se insieme alla difesa del modello tradizionale assumi una posizione accogliente nei confronti dei molteplici modelli familiari non convenzionali presenti nella società attuale, subito vieni tacciato di eresia. Se, infine, scegli di essere “super partes” che non prende alcun tipo di posizione, se non quello dell'invito alla preghiera, che alla fine fa sempre del bene a tutti, allora non solo rischi di essere, ma diventi una sorta di “novello don Abbondio” di manzoniana memoria, che di fronte alle situazioni della vita “sceglie di non scegliere”.

            Che soluzione scegliere, allora, oggi, per parlare della famiglia dal pulpito, senza cadere in uno di questi tre errori? La scelta migliore, per un cristiano prima ancora che per un prete, credo sia quella non di parlare ma di lasciar parlare; di non proferire la propria parola, bensì di lasciare che a parlare e a imporsi sia la Parola. E la Parola di oggi ci mette di fronte a uno dei brani più belli e suggestivi dei cosiddetti “Vangeli dell'infanzia” di Gesù, un brano commovente, soprattutto per queste due figure di anziani che realizzano, in pochi istanti, il sogno atteso da una vita: contemplare con i loro occhi la salvezza di Dio. Una salvezza che, inevitabilmente, getta luce sulle nostre vicende familiari, indipendentemente e “al di là” di quei molteplici modelli familiari che l'umanità da sempre propone. Mi permetto di individuare anche solo due “raggi” di questa luce che la Parola di oggi riflette sulle nostre famiglie.

            Il primo raggio è sintetizzato da quell'espressione che ritorna almeno cinque volte nel brano di Vangelo di oggi: “Come è scritto nella legge del Signore”. Il riferimento fondamentale della vita della famiglia di Nazareth è la Legge del Signore, ovvero la tradizione, l'insegnamento ricevuto dai padri. Giuseppe e Maria trovano nella Legge del Signore la pietra miliare del loro cammino di fede. E da qui non può che derivare un insegnamento veramente forte per ogni dimensione familiare vissuta oggi. E il secondo raggio di luce ce lo porta la figura del vecchio Simeone. Lui che era uomo del Tempio e della tradizione, è in realtà un uomo pieno di Spirito Santo: ed è proprio perché “mosso dallo Spirito” che riesce a indicare Gesù come “luce per illuminare le genti”. Non c'è un'adeguata e fruttuosa difesa della famiglia tradizionale e convenzionale, dove non c'è contemporaneamente, l'apertura del proprio cuore alla voce dello Spirito. Ma per farlo, occorre una fede certa, un cuore grande, una mente aperta e anche una disponibilità, nello scorrere delle vicende della vita, a sapersi mettere da parte, come fece il vecchio Simeone.

                                                                                                                                                                 don Franco Bartolino

Le cose più belle e più importanti, nella Bibbia, avvengono sotto una tenda, o in prossimità di una tenda. Basti pensare alla vicenda di Abramo, che si gioca tutta intorno alla sua tenda. Fino ad arrivare al popolo dell'Esodo, che vive di tenda in tenda, per quarant'anni nomade nel deserto. E non solo il popolo: il suo stesso Dio sceglie di dimorare, con l'Arca dell'Alleanza, sotto una tenda, provvisorio, nomade, sempre pronto a smontare l'accampamento e a dirigersi ovunque egli lo ritenga opportuno, scegliendo per il suo popolo ciò che gli serviva per rivelargli il suo amore.

            La tenda è l'immagine del cammino, della precarietà, a volte anche dell'instabilità, ma è pure un segno di forza, perché indica la capacità di resistere alle prove della vita e di rialzarsi con una certa facilità, pronti a ripartire senza dover perdere tempo a piangere su ciò che è crollato e andato in rovina. E questo fino a quando il popolo di Dio da nomade non avendo più la necessità di spostarsi di tenda in tenda, inizia a costruire case che danno più stabilità e più sicurezza.

            È con il re Davide che inizia a prendere corpo questa logica di un palazzo anche per Dio: avviene quando il re - lo abbiamo ascoltato nella prima lettura - si sente al sicuro nel suo palazzo, al sicuro da tutti i nemici, per cui giunge il momento per lui di “mettere al sicuro” anche Dio. E a poco a poco, sparisce il concetto stesso di “tenda” e questo, perché il popolo, a partire dai suoi re e dai suoi capi, si era abituato alla logica del palazzo, e alla logica del tempio come palazzo di Dio.

            Ma Dio non può essere rinchiuso in un palazzo e non regge le logiche del palazzo. Dio cammina con il suo popolo e se il popolo cammina nella precarietà, Dio condivide con il popolo la stessa precarietà: una precarietà che è di tutti, anche di chi crede di essere stabile, forte, sicuro. Non per nulla, Dio accetterà - suo malgrado - che Salomone, figlio di Davide, gli costruisca un tempio: ma gli chiederà di nascondere l'Arca dell'Alleanza dietro una tenda per continuare ad essere il Dio della Tenda, del cammino, del deserto, della precarietà.

            Con queste immagini di fine Avvento - ma possiamo a ragione chiamarle di vigilia natalizia - Dio ci vuole ricordare una cosa, molto semplice da comprendere e insieme molto complicata da attuare: ossia che, se l'umanità, assetata di Dio, vuole incontrarlo, conoscerlo, e iniziare un cammino con lui, dovrà farlo nella precarietà di una tenda, e non nella stabilità e nella sicurezza di un palazzo. Che, in fondo, è il mistero della precarietà della grotta di Betlemme: semplice da comprendere, suggestivo ed emozionante da contemplare, ma tremendamente difficile da vivere.

            Perché, dopo millenni in cui abbiamo vissuto e continuiamo a vivere una fede “da palazzo”, scrollarci di dosso la pesantezza di strutture e di giochi di potere che con la fede hanno ben poco a che vedere, non è per niente facile. E lo vediamo in quei continui tentativi di riforma che la Chiesa, anche in questi ultimi giorni, sta cercando faticosamente di portare avanti, e che puntualmente trovano resistenza innanzitutto nel nostro cuore e nella nostra testa, prima ancora che negli ambienti clericali, ecclesiali e di potere. Non perdiamoci d'animo, però, anche perché abbiamo un meraviglioso esempio davanti a noi: impariamo, da Maria, ad accettare che sia Dio a prendere l'iniziativa: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”.

 

Su di noi

Nel nostro nome "Piccole Missionarie Eucaristiche" è sintetizzato il dono di Dio alla Congregazione. Piccole perchè tutto l'insegnamento di Madre Ilia sarà sempre un invito di umiltà, alla minorità come condizione privilegiata per ascoltare Dio e gli uomini.
80124 Bagnoli, Napoli
[+39] 0815702809

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