Il testo di Luca, che leggiamo in questa domenica, ci racconta di tanti interrogativi: nonostante le notizie che arrivano, i discepoli sono descritti nell’atto di parlare tra loro, di discutere e ragionare, non vengono presentati come credenti ideali.
Tutti noi abbiamo bisogno di fare un cammino per arrivare a credere in Gesù, che non ci mette al riparo dai dubbi, ma che ci porta a vivere un’esperienza di incontro con il Signore, il quale non si rassegna davanti alla nostra incredulità.
Il Signore entra nei nostri ragionamenti e nelle nostre perplessità: si mette in mezzo, riprende il suo posto. Spesso i dubbi e le paure espropriano Gesù dal centro del nostro cuore. Ci sono altre preoccupazioni che prendono il sopravvento. Ma anche in questo caso, vediamo come per gli stessi discepoli non sia immediato riconoscere Gesù, proprio perché quando siamo presi dall’angoscia e dalla tristezza, Gesù stesso ci sembra un fantasma, una presenza inefficace, che può colpire la nostra fantasia, ma non è reale. Probabilmente anche per noi Gesù è diventato un ricordo, un’immagine, presente ma inefficace. Pensiamo che il Signore sia solo il frutto della speranza: vorremmo che fosse più presente nella nostra vita.
Il cuore dei discepoli è attraversato da molteplici sentimenti. Il testo di Luca dice che sono sconvolti, pieni di paura, turbati, dubbiosi, provano gioia e stupore. Si tratta di sentimenti anche molto diversi tra loro, che creano una tempesta affettiva.
Anche il nostro cuore è spesso attraversato da sentimenti diversi nei confronti di Dio, Egli sa che abbiamo bisogno di sentire la sua presenza e di essere aiutati a riconoscerlo. Anche con i discepoli fa così, si fa riconoscere e lo fa attraverso due modalità molto significative: le ferite e la condivisione.
Gesù mostra le sue ferite perché raccontano l’amore che ha avuto per loro. Quelle ferite, come anche le nostre, non sono inutili. Sono il segno di una storia d’amore. Gesù si fa riconoscere come colui che ha sofferto per noi.
Il secondo gesto è la condivisione: mangiare insieme. È il segno della familiarità, ma soprattutto è un gesto che rimanda al Cenacolo, al luogo dove abbiamo vissuto insieme e al luogo in cui Egli ha consegnato il suo corpo e il suo sangue.
Quei due segni gettano luce sulla storia, aprono la mente, invitano a rileggere quello che è accaduto. Gesù invita i discepoli a ricordare le parole che hanno ascoltato, il cammino che hanno percorso insieme.
Soprattutto i discepoli di ogni tempo sono invitati a rileggere la passione di Gesù, la sua morte in croce e la sua risurrezione.
Abbiamo bisogno di tempo, ma solo attraverso questo cammino possiamo diventare testimoni. E questo è il compito che Gesù vuole affidarci: raccontare quello che abbiamo vissuto.
E’ la Domenica della Misericordia e la Liturgia ci inserisce nell’esperienza della Fede attraverso il dubbio di Tommaso, il gemello di quella parte di noi che non ha paura di mettere in questione le proprie paure e delusioni; quella parte di noi che ancora non ha scoperto la bellezza dello stare insieme, come comunità riunita nella speranza, fieri soltanto della Parola del Signore, nella fedeltà alle sue promesse.
«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» (Gv 20, 19-31).
E sì come quella parte di noi gemella di Tommaso, accompagna il corso della Storia, ecco che pazientemente, il Risorto si presenta oggi in mezzo ai suoi, sua Chiesa, nella Liturgia Eucaristica, come ieri alla piccola comunità degli apostoli, riunita, spaventata, ma fedele.
In questa Domenica della misericordia quindi, ci vieni spontaneo alzare gli occhi e la voce, per dire grazie. Grazie a te Tommaso, perché dal tuo dubbio abbiamo ricevuto la beatitudine dei credenti. Grazie a te la nostra fede si ferma ancora di più nella Parola del Signore, nella Sua Presenza che dona sempre pace, nel suo perdono, sempre rivestito di misericordia: «Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Grazie a te, Chiesa, che sulla scia degli apostoli continui a incontrarsi per ascoltare e spezzare il pane che è Gesù, unica ricchezza che hai, e senza paura ne condividi con tutti gli uomini della Terra, nella speranza di quel giorno, in cui tutti saremmo una cosa sola con il Padre, per Cristo, nello Spirito Santo.
«Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l'acqua soltanto, ma con l'acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità». (1Gv 5,1-6)
Grazie a te, Gesù, Crocifisso Risorto, che con divina pazienza vieni sempre incontro alle nostre debolezze fisiche, morale, spirituali, fraterne… Sei Tu il nostro centro propulsore, sei Tu la calamita che ci mantieni uniti a Te, sei Tu la fonte della nostra gioia e della nostra pace. A Te, Cristo Gesù, il Vivente, affidiamo la nostra e tutta l’Umanità: vinci le nostre barriere, perdona i nostri numerosi peccati personale e sociale, mostraci le tue piaghe e permette che da esse possiamo attingere la freschezza della Tua salvezza; rinnovaci con il soffio del Tuo Spirito e rivestici con la tua pace. Costituiscici testimoni della vera gioia, la gioia di avere Te, di essere con te, di vivere in Te e morire come Te. Amen.
Siamo arrivati finalmente al cuore del cristianesimo: La passione e morte: del Dio vivente! Quaranta giorni fa siamo partiti dal deserto e con il Maestro ci siamo lasciati guidare sul Tabor per ammirare la sua bellezza, alla spianata del tempio, nel colloquio con Nicodemo e in compagnia dei greci che chiedevano a Filippo di poter vedere Gesù. Entriamo nella settimana, definita santa anche se a me piace chiamarla “Settimana Autentica”, perché è il centro della vita di un cristiano e faremo compagnia a Gesù minuto dopo minuto nelle sue ultime ore anche se la nostra vita continuerà a trascorrere regolarmente. In questa settimana, immergiamoci in quest'atmosfera fatta di silenzio, paura, dolore e tradimenti. Saranno i giorni dell'angoscia del Maestro di Nazareth: gli uomini capiranno finalmente? Oppure il Figlio di Dio resterà tra i tanti crocifissi anonimi della storia? Allora fermiamoci e ammiriamo lo spettacolo della croce come lo chiama Luca, lo spettacolo dell'amore.
In questa domenica è raccontata una contraddizione. La folla che accoglie Gesù in maniera entusiasta, che grida “Osanna al figlio di Davide” impugnando dei ramoscelli d'ulivo è la stessa che qualche giorno dopo griderà “crocifiggilo”! Perché oggi raccontiamo questa contraddizione? Perché la Passione è animata da contraddizioni. Racconteremo di Pietro che dice di essere disposto a dare la vita per il Signore, ma crollerà davanti alla domanda di una serva. I discepoli sono stati con lui notte e giorno ma nel momento più doloroso del Maestro scappano. Per non parlare di Giuda.
Quando leggiamo i racconti della Passione non ci sono buoni e cattivi, ci siamo noi, con le nostre luci e le nostre ombre. Siamo noi i discepoli che scegliamo di stare dalla sua parte ma che a volte, sul più bello, scappiamo, tradiamo e magari d'accordo con il Pilato di turno, crocifiggiamo Gesù fuori da Gerusalemme, cioè lo mettiamo fuori dalla nostra esistenza. Solo se abbracciamo questa contraddizione possiamo vivere bene la Pasqua, perché la celebrazione della Settimana Autentica è la celebrazione di un grande fallimento, diventata poi una grande vittoria e se accettiamo di essere contraddittori falliti, allora possiamo dire da che parte vogliamo stare.
Ci siamo accostati al racconto di Marco che conserva praticamente alla lettera il racconto primitivo della Passione, tanto amato dalla prima comunità di Gerusalemme. Marco, a differenza degli altri evangelisti, mette in risalto le reazioni molto umane di Gesù di fronte alla morte che lo aspetta e lo presenta spaventato, terrorizzato. Nel racconto di Marco, Gesù non dice una parola quando Giuda lo bacia e non reagisce quando uno dei presenti mette mano alla spada. Alle autorità religiose che gli chiedono se egli sia il Messia e a Pilato che vuole sapere se è re, risponde semplicemente: “Sì, lo sono”. Poi basta. Insomma, Marco ci presenta Gesù che accetta passivamente quanto gli sta accadendo e, alla fine, conclude semplicemente dicendo: “Si compiano dunque le Scritture!”
In questo spettacolo, due personaggi sono descritti solo da Marco. Il primo è quel giovane presente all'arresto, che “lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo”. Perché inserire questo dettaglio? Ma soprattutto chi è quel ragazzo? La tradizione lo ha identificato con lo stesso Marco, ma il dettaglio del lenzuolo (in greco “sindone”) è carico di profezia. Che cosa lascia questo giovane nelle mani delle guardie? La sindone! È l'immagine di ciò che sta accadendo a Gesù. Hanno catturato Gesù, ma cosa lascerà lui nelle mani delle guardie? Un lenzuolo non la sua persona. Il secondo personaggio è il Centurione. Tutto il Vangelo di Marco ruota attorno ad una domanda: chi è Gesù? Ed ecco finalmente la risposta! Ma la professione di fede è sulle labbra di un pagano, non su quelle di un discepolo: “davvero costui era figlio di Dio”.
Allora ammiriamo questo spettacolo dandoci del tempo. In Quaresima siamo stati noi i protagonisti mentre in questa Settimana il protagonista è Lui! In Quaresima ci siamo chiesti cosa potevamo fare per Dio, in questa Settimana contempliamo attoniti cosa Dio ha fatto per noi! Se a questa Settimana ci avviciniamo per “capire”, ci scivolerà addosso inutilmente; se invece desideriamo che incida sulla nostra esistenza, bisogna permettere che scriva sul nostro corpo perché siamo stati amati con il corpo e con il corpo dobbiamo amare. Ciascuno di noi, solo a partire dai propri fallimenti, può sperimentare la gioia della vittoria della vita sulla morte.
Spesso, di una persona riservata e che dà poca confidenza agli altri, diciamo che è una persona che “sta sulle sue”. Nella stragrande maggioranza dei casi lo diciamo di persone che a questo atteggiamento accompagnano un carattere per così dire “poco gradevole”, per non dire alquanto altezzoso. Non necessariamente, però: una persona può anche “stare sulle sue” perché preferisce non immischiarsi negli affari degli altri o semplicemente per ritagliarsi uno spazio di autonomia che lo preservi, lo salvi dal rischio di rimanere impegolato in situazioni poco piacevoli o eccessivamente compromettenti per la propria vita. Proprio per questo motivo, preferisce “stare sulle sue” e non compromettersi in situazioni complesse di una vita già complicata di suo.
Certo, questo gli fa perdere una serie di innumerevoli opportunità: “Chi non risica, non rosica”, recita un celebre proverbio toscano, con cui si insegna che chi sceglie di non rischiare, di non buttarsi nella mischia, difficilmente ottiene risultati. È questione di scelte, come quasi sempre avviene nella vita: sei tu che devi scegliere se metterti in gioco oppure no, se entrare in relazione con il mondo oppure, appunto, “stare sulle tue”. “Quasi sempre” ci sono anche situazioni in cui non ti è dato di scegliere e ti trovi coinvolto nelle cose della vita, al punto che è la vita a scegliere per te, e quello spazio che ti eri ritagliato per poter “stare sulle tue” viene invaso da ciò che meno ti aspetti e che, spesso, neppure gradisci.
È il caso, ad esempio, del dolore e della sofferenza, realtà che nessuno di noi sceglie di affrontare e di vivere, bensì che ti capitano addosso e di fronte alle quali hai ben poco da fare e inevitabilmente ti ci trovi coinvolto, senza aver la possibilità di scegliere di “stare sulle tue”. Tu puoi anche dire “scelgo di non soffrire”, “scelgo di non morire”, ma purtroppo la realtà ti dice ben altro, e in questo dialogo inevitabilmente ha ragione lei. Il dolore ti getta a terra e il più delle volte non si ferma lì. Ti butta addosso tanta sofferenza da rimanerne sepolto e fai davvero fatica a reagire. Quando poi sei buttato a terra dal dolore, sei spesso lasciato da solo, in balia delle bufere della vita: anche chi cerca di starti vicino e di farti sentire la sua vicinanza è comunque travolto dalle stesse sofferenze, perché nessuno di noi vi può sfuggire.
Il dolore ti trasforma: e anche quando ti sembra di avere, con fatica, dato un senso al tuo soffrire e inizi a rinascere e a dare segnali positivi, arriva l'ultima parola sulla nostra vita quella definitiva a purificarti da tutto ciò che è superfluo; vieni impastato in questi ingranaggi del dolore che tutto trasformano, manipolano, bruciano e ne esci sfornato e cotto al punto giusto! Eppure, qualsiasi pezzo di pane che esce dal fuoco di un forno e finisce, poi, sulle nostre tavole, affronta lo stesso processo “doloroso”: e non per niente, Colui che “innalzato da terra attirò tutti a sé”, accettò, la sera prima, di farsi pane spezzato per la nostra vita.
Non per niente, Gesù, nel vangelo di oggi, descrive il doloroso procedimento che lo porterà ad essere pane di vita proprio a partire dal mistero del chicco di frumento. Non ha certo potuto decidere, il chicco, di restare “sulle sue”: come il dolore fa con ognuno di noi, anch'esso viene gettato a terra, lasciato a marcire e quando rinasce nella spiga non può ancora dire di aver terminato il proprio percorso, perché poi arriva la falce nel momento della mietitura e una volta raccolto viene macinato dalla crusca, trasformato in farina e di nuovo impastato, messo al fuoco, e finalmente ecco il pane. Da un insignificante chicco di frumento, chiuso nella sua dura corazza, il mistero della vita e della morte, della rinascita e del dolore, della sofferenza e della prova, è capace di tirare fuori il pane della vita di ogni giorno e il pane della vita eterna.
Dalla nostra vita, spesso desiderosa di “stare sulle sue” e di rinchiudersi nella corazza del proprio egoismo, il mistero del dolore e della morte è capace, dopo un lungo processo, di tirare fuori la fragranza di una vita condivisa con gli altri e degna di essere chiamata vita proprio perché condivisa. Ma per fare questo, il chicco di grano deve cadere in terra e morire e accettare che il mistero della vita lo trasformi a sua volta in vita, per tutti. In fondo, tutto questo mistero altro non è che l'amore.
Il cammino quaresimale procede a grandi passi. Il Vangelo di questa domenica narra l’incontro di Gesù con Nicodemo, uomo colto, appartenente alla setta dei farisei e membro del Sinedrio. Non aveva ancora capito bene chi fosse Gesù e perché fosse venuto nel mondo. Ne aveva sentito parlare, sapeva che si definiva Figlio di Dio e voleva delle prove da Lui. Decide di incontrarlo di notte, per non farsi vedere dagli altri farisei e per rivolgergli alcune domande su Dio, sulla morte, sull’aldilà. Gesù gli risponde e nello stesso tempo si rivela: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna».
Con questa frase vuol far comprendere a Nicodemo, e a noi, che Dio è soprattutto amore e ciò che ha fatto è solo per amore. Anche di fronte alla nostra infedeltà, Egli continua ad amarci. Gesù ricorda inoltre un episodio della storia del popolo di Israele, narrata nella Bibbia; quando gli ebrei erano stati colpiti dai morsi letali dei serpenti e Mosè, su invito di Dio, fece innalzare un serpente di bronzo e chi lo guardava veniva subito guarito. È facile comprendere che chi guarderà con l’occhio della fede Cristo, avrà la vita eterna.
Per far comprendere meglio cosa significhi credere, Gesù usa la simbologia della luce e delle tenebre, indicando nella luce l’amore di Dio per l’uomo e nelle tenebre le opere malvagie. Dunque, non bisogna fermarsi all’Antico Testamento, come pensava Nicodemo, ma è necessario accogliere la persona di Gesù, che con la sua luce, ci guida fuori dal buio. Purtroppo, molti la rifiutano e preferiscono vivere nelle tenebre. Amano compiere il male e chi lo fa odia la luce, non intende accostarsi ad essa. Al contrario, chi si dedica alle opere buone si avvicina continuamente alla luce, rispondendo alla volontà di Dio ed entrando in comunione con Lui.
Occorre ascoltare e mettere in pratica la Parola, che è Gesù Cristo, accoglierla, credere in essa, custodirla nel cuore, osservarla e testimoniarla. Vivere nella luce o nelle tenebre è una decisione da prendere qui ed ora, nelle azioni di tutti i giorni, quelle che il Signore ci invita a compiere. Come per Nicodemo, comincia a farsi giorno per tutti, quando si crede e si ama, si producono frutti duraturi. In queste ultime settimane di Quaresima impegniamoci con maggior entusiasmo ad incontrare il Signore, cerchiamo di stare alla sua presenza, interrogandolo, come Nicodemo, e ancor di più ascoltandolo, per comprendere se viviamo nella luce dell’amore o nelle tenebre del male e dell’egoismo.
Il viaggio di Nicodemo è il viaggio di ogni uomo: tutti sperimentiamo situazioni di notte, in cui le ombre assumono forme strane e minacciose. Tutti abbiamo paura di perdere le nostre sicurezze, di abbandonare i nostri punti di vista, le certezze che ci siamo costruiti. Ma a volte la realtà bussa alla nostra porta e ci mette in crisi. Nicodemo non cerca di vincere da solo le sue paure, ma cerca una luce. Si mette dietro a quella luce e cammina.
Come gli israeliti dovevano guardare il serpente di rame elevato sull’asta da Mosè, così Nicodemo deve guardare la croce che gli fa paura, per scoprire che su quella croce non deve salirci lui, perché un altro ha preso il suo posto.
La croce è tutto quello che ci spaventa, è la morte, il giudizio, l’abbandono e la solitudine. Gesù ci dice di guardare quella croce che ci fa paura per scoprire che Lui l’ha presa su di sé al posto nostro. E così, guardando la croce, potremo essere guariti.