A quanto pare, il nostro Dio, non vuole rimanere da solo e non gli va di rimanere racchiuso su nei cieli; e neppure permette all'uomo di andare in cerca di lui, facendosi trovare solamente dopo un'affannosa ed estenuante ricerca fatta il più delle volte di sofferenza, di momenti di sconforto e anche di rabbia nei suoi confronti. Il nostro Dio è Colui che si rivela, che si mostra presente, Colui che si lascia trovare da chi lo cerca con cuore sincero perché, ancor prima, è lui stesso che mette nel cuore dell'uomo il desiderio di lui.

            È il Dio della compagnia, non della solitudine; il Dio della condivisione, non dell'esclusività; il Dio della storia, non dell'eternità; il Dio autorevole, non il Dio autoritario; un Dio che per farsi rispettare e venerare non crea sudditi, ma figli. In definitiva, un Dio che non sopporta l'idea di farla da padrone, e che invece ama essere Padre. E non è un Dio immobile che impartisce ordini dall'alto: si fa presente, nella storia dell'umanità, “con prove, segni, prodigi e battaglie”, perché l'uomo sappia che “il Signore è Dio lassù nel cielo così come quaggiù sulla terra”.

            La Sacra Scrittura è un continuo tentativo di descrizione delle prove, dei segni e dei prodigi affrontate da Dio per rendersi credibile agli occhi degli uomini: non sempre questi tentativi sono andati a buon fine, e di certo, non per colpa di Dio, quanto per l'indifferenza degli uomini. Ma Dio non si è perso d'animo, e il suo prodigio più grande lo ha affidato allo Spirito Santo: l'Incarnazione nella vicenda storica del Figlio Gesù Cristo, la più geniale delle trovate di Dio, che per farsi incontrare dall'uomo si fa uomo come lui.

            Oggi siamo qui a celebrare il mistero di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo ripetendo una formula in maniera quasi abitudinaria, facendoci il segno della croce nel nome di un Dio che è unico e che si rivela in tre persone con un gesto che ripetiamo un mucchio di volte, ma che a causa della nostra indifferenza rischia di dire poco o niente alla nostra vita di ogni giorno. Se invece sapessimo guardare alla nostra fede in modo “trinitario”, oggi eviteremmo di compiere e di ripetere tanti errori del passato, spesso commessi, purtroppo, anche in nome della religione.

            Non metteremmo mai Dio al servizio dei nostri progetti, leciti o meno che siano; non ci costruiremmo un Dio a nostra immagine e somiglianza; non faremmo dell'arrivismo e dell'apparenza il nostro altare, trasformando le chiese in palcoscenico per le nostre passerelle; non useremmo mai la religione come pretesto per fare delle guerre sanguinose; non ci sentiremmo mai dei “perfetti” o anche solo degli “arrivati” riguardo alle cose di Dio, ma ci metteremmo continuamente in cammino, perché l'ultimo comando di Gesù ai suoi discepoli nel Vangelo è “Andate e fate discepoli tutti gli uomini battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, ovvero immergendoli nella storia di grazia di un Dio che ha sempre rifiutato di starsene beatamente seduto su una nuvoletta in cielo.

            Se crediamo che il Dio Padre, Figlio, e Spirito Santo è il Dio della storia condivisa e vissuta in compagnia dell'uomo, non possiamo accontentarci di una fede fatta di riti, di celebrazioni e di preghiere gettate al vento. Occorre che viviamo una fede a misura di Dio Padre, piena di fiducia in lui e nell'uomo; a misura di Dio Figlio, in piena condivisione con le vicende umane; a misura di Spirito Santo, sempre in cammino sulle strade dell'umanità.

                                                                                                                    don Franco Bartolino

Credo che esista un atteggiamento molto frequente in tanti cristiani che confondono o fanno coincidere la fede con la religione e in particolare con una religione fatta di un insieme di pratiche, di comportamenti, di norme e di precetti che danno loro la salvezza e li fanno sentire a posto per il solo fatto che li osservano. Attaccarsi a una lista di leggi da compiere per giungere alla salvezza significa - dice Paolo nella seconda lettura - vivere “secondo la carne”, ovvero secondo realtà umane che hanno poco respiro, che si accontentano del “minimo” indispensabile. La vera fede ti chiede invece di fare il massimo, di metterci la faccia e di assumere con responsabilità l'impegno del credere, oltre e ben al di là di una serie di leggi da compiere; e una fede così, non può che essere frutto dello Spirito.

Le opere della carne per essere sconfitte, chiedono a noi necessariamente di costruirci una fortezza dietro la quale arroccarci per difenderci dagli attacchi del “mondo cattivo” perché in buona sostanza ci dice: “Osserva questi comportamenti, e nessuna opera della carne ti potrà abbattere, nonostante tu venga continuamente tentato”. Potrebbe sembrare una dichiarazione di certezza, a me, invece, questo dà la sensazione di un profondo senso di insicurezza, che pervade la vita di chi vive una religione in questo modo, ovvero con il bisogno di avere sempre calate dall'alto norme e indicazioni certe che vincano le nostre insicurezze. Ma l'insicurezza è quasi sempre segno di immaturità umana e spirituale.

Preferisco, invece, una vita in cui le certezze e le sicurezze me le costruisco da me, magari anche con l'aiuto di norme o di precetti, ma principalmente facendo riferimento alla mia coscienza e all'assunzione delle mie responsabilità, che a volte comporta anche cadute ed errori, ma ti fa pure riscoprire la bellezza del perdono. Soprattutto, preferisco la vita nello Spirito, quella che ci rende una cosa sola con Dio in Cristo Gesù, come uno solo è il frutto dello Spirito, che diviene poi infinita ricchezza di doni e di virtù. Ciò che allora scende sui discepoli riuniti a Gerusalemme “in un luogo chiuso, per paura dei Giudei” non è solo una manifestazione particolare di Dio: è un dono unico, singolare che fa scaturire in modo naturale tutte le virtù di cui ogni uomo è capace, se si lascia pervadere dallo Spirito. Allora, non sarà la formalità di un rapporto sancito da una legge, o un attestato che certifica il nostro vincolo di fronte alla società, a dire la bontà e la bellezza del mio rapporto con la persona che amo; sarà invece la forza dell'amore, che fa belle e nuove tutte le cose che a noi, forse, non è dato comprendere fino in fondo, ma dai quali non può che scaturire il bene perché l'amore è capace di diffondersi da sé, senza bisogno di leggi o di norme che lo regolino.

Non saranno le espressioni serie del mio viso o le mie mani giunte quando sono in chiesa a dire al mondo che prendo sul serio Dio; sarà invece la gioia che esce dal mio cuore e si stampa sul mio sorriso e nei miei occhi - dentro e fuori da una chiesa - a testimoniare che ho scoperto chi e cosa davvero conta nella vita. Non sarà l'ansia di avere sotto controllo ogni cosa attraverso l'esercizio dell'autorità a farmi sentire sicuro di me stesso; saranno invece sentimenti di pace e di mitezza a rendermi più credibile ai fratelli che mi incontreranno, anche a costo di sembrare fragile e vulnerabile.

Non saranno giudizi e parole di condanna verso ciò che accade nel mondo a fare di me un profeta della verità; saranno invece atteggiamenti di benevolenza e di bontà verso ogni uomo, soprattutto verso i più deboli, a rendermi testimone di un Dio che è Padre più che padrone, di un Gesù che è Fratello più che capo, di una Chiesa che è Madre più che maestra.

E non sarà compiendo “alla lettera” le norme e i precetti della mia religione che io mi renderò santo e irreprensibile agli occhi di Dio; saranno invece la fedeltà a lui e il dominio del mio orgoglio a fare di me un uomo o una donna dello Spirito che vive nello Spirito, testimonia lo Spirito, contribuisce a diffondere lo Spirito di Dio nella storia dell'umanità. Perché le norme, i precetti, i riti e le istituzioni possono anche mutare e addirittura venire meno, ma Dio non farà mai mancare lo Spirito alla sua Chiesa e all'umanità intera.

                                                                                                                               don Franco Bartolino

Le letture della solennità dell’Ascensione ci propongono una dinamica che diventa centrale nella nascita della prima comunità cristiana. Il Vangelo, infatti, ci presenta l’ascensione come un punto di arrivo, come il compimento della missione di Gesù: «Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio».

 Gli Atti degli Apostoli ci presentano, invece, questo evento come un momento di partenza, è l’inizio della storia della Chiesa. Questo nuovo inizio comincia con un ordine perentorio, rivolto ai discepoli, da parte di Gesù: Restate a Gerusalemme!

 È la richiesta da parte del Signore di non scappare, non solo per ricevere lo Spirito Santo, ma anche per affrontare la persecuzione. Il primo compito affidato ai discepoli è attendere.

Sia nella conclusione del Vangelo di Marco che nell’inizio degli Atti degli Apostoli ciò che siamo chiamati a contemplare è innanzitutto la consegna di Gesù al Padre. In entrambi i testi, quella che chiamiamo ascensione, è un’azione in forma passiva: Gesù è assunto in cielo, sottintendendo che quest’azione è operata dal Padre. Gesù vive fino in fondo la sua obbedienza. Guardando il cielo, contempliamo quell’obbedienza che la Chiesa e ogni discepolo è chiamato a vivere. 

Nonostante questa distanza, la conclusione del Vangelo di Marco e tutto il libro degli Atti degli Apostoli ci rassicurano sul fatto che piano piano è possibile entrare nel progetto di Dio. E dunque non bisogna scoraggiarsi se anche noi ci sentiamo lontani dalla volontà di Dio.

In maniera molto sintetica, infatti, gli ultimi versetti del Vangelo riassumono i tratti della missione dei discepoli, nei quali possiamo ben vedere quello che i discepoli di ogni tempo possono fare e ciò che sono chiamati a fare: i discepoli hanno il potere di scacciare i demoni che prendono nuovi volti in ogni tempo: i demoni del potere, della violenza, delle discriminazioni, dell’egoismo… I demoni sono tutto ciò che allontana l’uomo da Dio.

I discepoli hanno il potere di parlare lingue nuove, cioè di trovare nuove modalità per annunciare il Vangelo. Possono prendere in mano i serpenti, cioè possono maneggiare anche tutti quei tentativi di seduzione a cui sono sottoposti, così come possono bere i veleni contenuti nelle logiche e nelle parole del mondo senza subirne danno.

Ma i discepoli sono anche chiamati a esercitare il ministero della consolazione, a guarire le malattie degli uomini di ogni tempo, soprattutto a guarire i cuori da tutto quello che spaventa e scoraggia.

Il Vangelo è per tutti e ciascuno di noi è chiamato a portarlo a tutti, sapendo che questa Parola ha in sé la forza di abbattere i muri che l’uomo innalza, per portare tutti all’incontro con il Salvatore.

È una Parola che fa appello alla libertà di ogni persona: si può dire “no” al Vangelo. E nessuno può essere costretto ad accogliere questa Parola. Ma noi che l’abbiamo accolta ne riconosciamo la verità e la potenza.

 Prima di tornare al Padre, Gesù ce lo ricorda. E ci invita, senza perdere di vista il cielo, a volgere lo sguardo al nostro mondo, all’umanità intera, con il desiderio che ogni uomo sia salvato. E noi siamo chiamati a essere umili strumenti di questo annuncio di salvezza.

                                                                                   sr Annafranca Romano

Lungo questa quinta settimana di Pasqua abbiamo sentito dal Signore un richiamo continuo a rimanere nel Suo amore. La Liturgia oggi ci fa capire ancora che rimanere nel suo amore è possibile solo per opera dello Spirito Santo. Ecco allora dove deve fondarsi la nostra preghiera e le intenzioni che ci spingono a pregare e annunciare: lo Spirito Santo che è Amore. E’ Lui che ci aiuta a discernere il modo di amare secondo Dio e per la gloria di Dio, perché non è detto che basta credere di amare; ci sono infatti molti modi di amare: dalla semplice ricerca del piacere all’avidità o all’amore più disinteressato; dall’amore più materiale a quello più spirituale; «dall’amore di sé fino al disprezzo di Dio, all’amore di Dio fino al disprezzo di sé» (S. Agostino).

Ecco perché già san Giovanni ha cercato di esprimere le caratteristiche proprie dell’amore cristiano, partendo dalla convinzione che Dio stesso ci ama per primo: «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (cfr. 1Gv 4,7-10). Dunque è in Gesù Crocifisso e Risorto per noi la manifestazione concreta e vivente dell’amore di Dio che attraversa la storia di ogni uomo e donna, chiunque sia e da dove sia: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga. Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola.» (cfr. At 10, 25-48).

Abbiamo dunque, davanti a noi il modello dell’amore: Cristo Gesù nostro Signore. Abbiamo per noi, Colui che ci forma a modello di Cristo: Lo Spirito del Padre, che è Santo, che ci fa vedere il volto nascosto nelle cose, che ci fa andare verso chi è nel bisogno, che ci fa amare fino a morire o desiderare morire di amore e per amore. Questo è il comandamento nuovo raccomandato e sigillato dal Crocifisso Risorto, abbracciato e testimoniato dalla prima comunità cristiana e lasciato come eredità e missione ad ogni discepolo battezzato, che nonostante tutto, crede  che la sua vita nascosta in Cristo, vissuta nell’amore e per amore diventa, ogni giorno un’eucaristia quotidiana.

«Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri
» (Gv 15,9-17).

                                                                                                                              sr Maria Aparecida

Da sempre, la quarta domenica del Tempo di Pasqua è dedicata alla figura di Cristo Buon Pastore, in quanto la Liturgia ci presenta la lettura di un breve brano tratto dal capitolo 10 del Vangelo di Giovanni, nel quale Gesù si rivolge prima ai suoi discepoli e poi a un gruppo di Giudei suoi oppositori con una parabola, un po' diversa dalle solite come “insolito” è il Vangelo di Giovanni. Gesù si presenta come il “Buon Pastore”, richiamando una figura cara all'Antico Testamento e in modo particolare alla tradizione profetica, nella quale il pastore si identifica non solo con i capi d'Israele, ma anche e soprattutto con la figura paterna e amorevole di Dio. Nel solco della tradizione profetica Gesù presenta l'ideale della figura del pastore, ovvero del responsabile di una comunità, il quale dev'essere - a imitazione della bontà di Dio - pronto a tutto per le sue pecore, addirittura a “dare la vita” per esse.

            In questo senso, il pastore si distingue dal “mercenario”: questo termine deve la propria origine all'ambiente militare e si riferisce al soldato che combatte una guerra non per amore della patria, ma per amore del denaro e quindi, si offre all'esercito che meglio lo paga. Applicato al mondo agropastorale, si tratta di un qualsiasi operaio che ha come unico scopo quello di guadagnare il più possibile, magari con il minimo sforzo, per cui si guarda bene dal metterci passione in ciò che fa. Al punto che, in una situazione di pericolo o d'insicurezza, una volta assicuratosi il proprio stipendio, se la fila a gambe levate, lasciando al loro destino le pecore che gli sono state affidate, proprio perché non sono sue. Tant'è, un altro padrone lo troverà comunque, e anche da quello cercherà di lucrare il più possibile.

            È proprio su questa contrapposizione tra “appassionato” e “mestierante” che Gesù fa perno per far comprendere ai propri uditori quale sia, nell'esercizio della responsabilità, l'elemento discriminante tra i due, ovvero l'Amore. Chi fa le cose per guadagnare, non necessariamente fa una cosa illecita: non fa altro che entrare nella logica del mercato. A una prestazione corrisponde un salario, al di là della passione che ci si mette nel farlo perché la passione non ha prezzo perché l'Amore non ha prezzo e con esso, non ha prezzo la bellezza dell'opera e del lavoro realizzati. Una cosa fatta per dovere o secondo logiche di mercato, ha un valore e come tale va pagata, anche per un criterio di giustizia sociale; ma la stessa cosa fatta con amore ha un plusvalore a cui nessun datore di lavoro riconoscerà un bonus, eppure esso rappresenta il valore aggiunto dell'opera realizzata.

            Quanto siamo lontani dall'aver compreso che a nulla vale la competenza delle scienze, dell'esperienza e dell'autorità, se non siamo testimoni autorevoli e credibili dell'amore che da Dio abbiamo ricevuto e per suo comando siamo tenuti a donare! La miglior azione pastorale rimane quella della testimonianza e l'unica testimonianza credibile è quella di chi sa amare perché - come diceva il grande teologo Von Balthasar oltre sessant'anni fa - “solo l'amore è credibile”.

                                                                                                             don Franco Bartolino

 

 

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Nel nostro nome "Piccole Missionarie Eucaristiche" è sintetizzato il dono di Dio alla Congregazione. Piccole perchè tutto l'insegnamento di Madre Ilia sarà sempre un invito di umiltà, alla minorità come condizione privilegiata per ascoltare Dio e gli uomini.
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